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“Mean Streets” 50 anni dopo

“Vivendo nella Little Italy di Manhattan potevi scegliere fra diventare gangster o prete. Io scelsi la via religiosa, ma finii per diventare un regista”. Il neoadolescente Martin Scorsese, bloccato tra le mura di casa per via dell’asma, guarda dalla sua finestra il formicaio umano di Little Italy e i goodfellas che ne popolano le strade

Marvel come opera mondo – Speciale “Avengers: Endgame” I

Luoghi, eventi e parole di tutti i film precedenti vengono miscelati e riproposti sullo schermo, mettendo in luce pregi e difetti di un universo narrativo che ha pochi eguali nella storia. Come per le pagelle scolastiche di fine anno, Kevin Feige vuole dare i voti alle proprie fatiche, dalle più riuscite a quelle più deludenti, con il folle obiettivo di condensare un’intera decade di cinema in un unico film. Il risultato finale è un’opera mondo che sfonda le barriere del proprio genere, calamita l’attenzione di appassionati e neofiti e restituisce al cinema la sua funzione di rito collettivo. Basterebbe vedere la lunghissima battaglia finale tra Thanos e gli Avengers per comprendere la vera forza della macchina produttiva dei Marvel Studios: la capacità di sfruttare al massimo le potenzialità del grande schermo, di intrattenere e coinvolgere il pubblico in sala senza mai limitarsi di accontentare le aspettative ma solo superandole.

“Border” e la poetica dell’ibrido

Premiato allo scorso festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, Border rifiuta la semplicistica etichetta di film horror e ambisce a una narrazione di più ampio respiro: in esso convivono in perfetto equilibrio la love story, il thriller e il dramma esistenziale per dare vita a un racconto ibrido e dal genere indefinito. Il merito di questo grande traguardo artistico va riconosciuto anche e soprattutto ad Eva Melander ed Eero Milonoff, gli attori protagonisti che hanno dato vita a due personaggi memorabili, capaci di attrarre e spaventare il pubblico con un perfetto mix di bestialità e candore. Border brilla di luce propria nel panorama horror contemporaneo grazie allo smodato coraggio con cui sfida le convenzioni del genere e cerca un nuovo modo di portare in scena l’orrore.

“Il primo re” e il conflitto epico

L’ambizione smodata che guida la mano di Matteo Rovere nella realizzazione de Il primo re non è solo quella di mostrare le potenzialità del cinema italiano ai suoi massimi livelli, ma anche e soprattutto quella di confrontarsi senza esitazioni con la potenza comunicativa del mito, inteso come principio e fine di ogni storia mai raccontata. La faida tra Romolo e Remo non ci viene presentata infatti come mera celebrazione di un racconto fondativo nazionale, ma come parabola morale sulla nascita della civiltà e sui primi approcci dell’uomo con il potere e il soprannaturale. I barbari primitivi che popolano il Lazio, al pari delle scimmie di 2001 Odissea nello spazio, trovano nella violenza l’unico strumento adatto a compiere il salto evolutivo necessario per sopravvivere in un mondo spietato e tribale, dove la natura si accanisce sugli uomini superandoli in brutalità, quasi come se volesse difendersi dalla rovina che verrà.

“La favorita” e il potere come afrodisiaco

Nell’Inghilterra illuminista che gli sceneggiatori Deborah Davis e Tony McNamara vogliono raccontare, l’uomo è brutalmente schernito e privato di qualunque forza decisionale nelle meccaniche del potere; l’unica funzione del maschio è quella di morire al fronte oppure oziare a palazzo nella vana speranza di ottenere favori dalla regina Anna, divisa tra le attenzioni della gelida Lady Sarah e della spregiudicata Abigail. Uno scenario a dir poco antitetico rispetto alle gerarchie sociali del Settecento fedelmente rappresentate in Barry Lyndon, ma i contrasti con il film di Kubrick non si fermano qui: alla riproduzione pittorica del regista statunitense Lanthimos oppone una violenta deformazione dello scenario e dei personaggi in gioco, una sorta di caricatura grottesca del Secolo dei Lumi espressa dalle geometrie visive della macchina da presa, che come una telecamera a circuito chiuso si annida nelle sale del potere e rivela allo spettatore i suoi segreti più sordidi.

“Tonya” opposto negativo di “Rocky”

La parabola sportiva di Tonya Harding, segnata dai warholiani quindici minuti di gloria e da una ben più lunga condanna alla gogna pubblica, è segnata sul nascere dal suo essere un’anormalità al cospetto della norma. Tutto nella vita della pattinatrice è in opposizione ai dettami dell’american way of life: un nucleo familiare composto da un padre inetto e dalla terrificante madre LaVona – ruolo difficilissimo per cui Allison Janney si è guadagnata tutti i premi cinematografici della passata stagione – , un marito tanto violento quanto mediocre che ucciderà la carriera sportiva di Tonya per colpa della sua inettitudine e infine un’appeal fisico in contrasto con la bellezza stereotipata che contraddistingue il pattinaggio sul ghiaccio.

Clint Eastwood è l’America

Che si tratti di un solitario pistolero senza nome o dell’integerrimo ispettore Callaghan, l’attore californiano ha sempre portato in scena il suo volto granitico per elevarlo a icona dell’individualismo ribelle e appassionato su cui si poggia la storia del proprio paese. Passato alla regia, l’eroe americano è diventato inevitabilmente il vate della nazione, narratore delle “magnifiche sorti e progressive” degli States così come delle sue innumerevoli zone d’ombra. Alle soglie dei novant’anni, il Maestro ribadisce la sua centralità nel cinema americano con Ore 15:17 – Attacco al treno,  opera mutaforma con cui il regista ribalta la sua conclamata classicità e porta avanti la sua personale epica dell’uomo comune.

“7 psicopatici” tra Malick e Peckinpah

Accade spesso nella filmografia di un regista che alcuni film trovino il loro giusto riconoscimento solo dopo anni dal loro esordio sugli schermi, quando lo stile dell’autore giunge a completa definizione e ogni suo lavoro viene rivisto come parte di una coerente poetica di cinema. È in questa categoria di film che trova il suo posto 7 psicopatici, magmatica opera seconda di Martin McDonagh, incompresa dal pubblico ai tempi dell’uscita in sala ma anticipatrice di tutti i temi, le suggestioni e le cifre stilistiche che hanno decretato il successo di Tre manifesti a Ebbing, Missouri.

“Vestito per uccidere” al Torino Film Festival 2017

La potenza visiva e il valore seminale di Vestito per uccidere, opus numero tredici di Brian De Palma e suo primo successo commerciale, non sono misurabili solamente in quanto pellicola spartiacque nella filmografia del regista. A differenza del Maestro del brivido, De Palma mostra qui di rinunciare sfacciatamente alla logica narrativa nella costruzione della tensione, ma la sua profonda conoscenza del linguaggio del cinema e la sua capacità di giocare con i nervi dello spettatore mettono questa mancanza in secondo piano e ci regalano alcune delle sequenze più memorabili della sua carriera.

“Morto Stalin, se ne fa un altro” al Torino Film Festival 2017

“La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” Il regista e sceneggiatore scozzese Armando Iannucci ha bene in mente la massima di Karl Marx sul valore storico dei regimi totalitari ed è sulla trasfigurazione grottesca del potere che getta le basi Morto Stalin, se ne fa un altro, uno dei film più quotati per la vittoria del Torino Film Festival di quest’anno che giunge in concomitanza con il centenario della Rivoluzione d’Ottobre.

“Obssession” al Torino Film Festival 2017

Due anni dopo l’immeritato fiasco di Phantom of the Paradise Brian De Palma torna a gravitare nell’orbita del suo nume tutelare Alfred Hitchcock con Obsession, ennesima riflessione conturbante sul tema del doppio con cui il regista italoamericano dimostra la sua abilità nel manipolare lo sguardo, tanto degli spettatori quanto dei suoi personaggi, ricorrendo in misura minore ai virtuosismi formali di cui il suo cinema si alimenta. Le affinità del film con La donna che visse due volte sono talmente forti da mantenere l’opera in bilico tra l’omaggio e il remake

Cinema Ritrovato 2017: “La febbre del sabato sera”

Il successo senza precedenti de La febbre del sabato sera e la sua statura mitica nell’immaginario collettivo nascono da una curiosa anacronia: il film di John Badham esce in sala nel 1977, anno in cui il punk e il rap cominciano a imporsi sulla scena e la disco dance viene rigettata con scherno, ma riesce per paradosso a sigillare nel tempo una cultura musicale e un’epoca storica assolutamente irripetibili, ancora oggi nostalgicamente idolatrate e identificate nel corpo-simulacro di John Travolta.

Cinema Ritrovato 2017: “Voglio la testa di Garcia”

“Why? Because it makes me feel good, goddamnit!”. La crudeltà disillusa del cinema di Sam Peckinpah, regista osteggiato all’epoca per la sua atipicità e rivalutato postumo per il contributo fondamentale nel rinnovamento del western, raggiunge il suo punto terminale con Voglio la testa di Garcia, ultimo atto di un racconto sul genere che da Il mucchio selvaggio a Cane di paglia è riuscito a cristallizzare sullo schermo come pochi altri la radicalità della violenza umana.

Cinema Ritrovato 2017: “La saggezza nel sangue”

Pochi registi al mondo come John Huston sono riusciti ad attraversare quarant’anni di storia del cinema mantenendo fede alla propria poetica e adattandola alle innumerevoli forme espressive del cinema americano. La saggezza nel sangue, sceneggiato da Michael Fitzgerald a partire da un romanzo di Flannery O’Connor, è la seconda incursione del maestro, dopo il folgorante Città amara, nei territori aridi e disperati della New Hollywood che si sposano alla perfezione con l’affetto sconfinato di Huston verso i disadattati.

“L’uccello dalle piume di cristallo” e la cupa sensualità di Morricone

Steso su un’assolata spiaggia della Tunisia il giovane Dario Argento, ai tempi critico cinematografico e soggettista per Sergio Leone, ha un’intuizione visiva formidabile: un uomo cammina solo per la strada finché non assiste, attraverso una vetrina, all’omicidio di una giovane donna senza poter fare nulla per salvarla. Da questa piccola idea nasce L’uccello dalle piume di cristallo, e con esso la filmografia di un regista che avrebbe presto rinnovato le modalità di rappresentazione del terrore sul grande schermo.

Cinema Ritrovato 2017: “West Indies”

Le lacrime di commozione di Med Hondo alla presentazione di West Indies, manifestazione passionale della sua gioia nel poter condividere il suo film con il pubblico a distanza di 40 anni, spiegano meglio di tante parole la perseveranza del regista mauritano nel concepire il cinema come un’arte collettiva tout court e l’importanza cruciale di quest’opera nella ridefinizione del cinema africano successivo.

Cinema Ritrovato 2017: ancora su “Domenica d’agosto”

Torniamo ancora su Domenica d’agosto. Del resto, l’esordio alla regia di Luciano Emmer segnò il riuscito incontro tra il quasi esaurito Neorealismo e le prime forme di commedia all’italiana, un malinconico racconto corale che è anche un meticoloso spaccato dell’Italia nel Dopoguerra. E per questo motivo, nella copia vista al Cinema Ritrovato, merita i nostri approfondimenti.

Cinema Ritrovato 2017: “Delhoreh”

Sotto la sua facciata di B movie, Delhoreh riesce anche a dare al pubblico una chiara testimonianza del processo di modernizzazione in atto nell’Iran degli anni Sessanta: le macchine sportive americane dividono le strade con i cammelli, i vecchi villaggi nel deserto vengono rimpiazzati da sfarzosi palazzi moderni per la nuova borghesia, l’aria nuova dell’Occidente cambia completamente il volto della città e con essa l’animo degli iraniani.

New York Stories: ancora su “Mean Streets”

“Vivendo nella Little Italy di Manhattan potevi scegliere fra diventare gangster o prete. Io scelsi la via religiosa, ma finii per diventare un regista”. Il neoadolescente Martin Scorsese, bloccato tra le mura di casa per via dell’asma, guarda dalla sua finestra il formicaio umano di Little Italy e i goodfellas che ne popolano le strade

New York Stories: “I guerrieri della notte”

    New York City, 1979. Cyrus, leader afroamericano dei Riffs, raduna nel Bronx tutte le street gangs della città (più di 100.000 uomini in totale) per unirle in unico grande esercito e porre fine alle sanguinose lotte per il controllo dei quartieri. Nel bel mezzo del raduno Cyrus viene ucciso da Luther, anarchico leader dei Rogues, e la colpa dell’omicidio viene attribuita ai Warriors, carismatica gang di Coney Island. Per gli otto guerrieri è l’inizio di una frenetica fuga lunga...