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“L’amante dell’astronauta” più leggero e meno drammatico

Il pregio del film di Berger è quello di delineare con grande delicatezza, seppure con un certo paternalistico compiacimento nient’affatto giudicante, questa coreografia tra due insicurezze che si incontrano. Se dalla prima sequenza appare evidente che uno dei temi cardine della pellicola sia quello dello spaesamento, la regia e la sceneggiatura di Berger lo strutturano in modo leggero, evitando un tono da dramma esistenziale.

“Sono nato ma…” e la crisi della figura paterna

Sono nato, ma… racconta della crisi della figura paterna agli occhi dei figli: le aspettative deluse, il confronto con altri padri che sembrano “pezzi grossi” rispetto al proprio, la perdita della stima sulla base delle umiliazioni subìte dal genitore. Ma il film racconta anche il superamento di questa crisi, con la comprensione dei sacrifici dei genitori, le conseguenze dell’abnegazione paterna sulla qualità della vita dei figli, la possibilità di vedere soddisfatte le proprie elementari esigenze grazie ai compromessi a cui si abbassano i padri.

“Tirate sul pianista” in totale libertà artistica

Si rimane storditi a ogni cambio di passo, perché ciò significa abbandonare il poliziesco per lasciarsi condurre in una storia romantica o scontrarsi improvvisamente e inaspettatamente con una tragedia. Lo stesso Truffaut era consapevole del fatto che questo film sconcertasse tutti e anche oggi molte scelte registiche e narrative stupiscono ancora. Tirate sul pianista rende libero un racconto che non dovrebbe esserlo.

One Woman Show. Ancora su “The Wind” e il potere delle immagini

Come già nelle sue opere precedenti (in particolare nel capolavoro Il carretto fantasma, del 1921), Sjöström si dimostra ancora una volta maestro nel piegare la tecnologia al servizio dell’arte: per dare visualizzazione all’anima del “vento del nord” realizza sovrimpressioni e doppie esposizioni con le immagini di un cavallo, che simboleggia – secondo le credenze degli indiani che abitano il deserto – proprio lo spirito del vento.

“Sugarland Express” e la rilettura del road movie

Il road movie viene piegato alle esigenze di un giovane regista che non vuole né semplicemente mostrare i grandi paesaggi statunitensi né concretizzare nel viaggio una rivoluzione generazionale o una controrivoluzione culturale. Ciò che interessa a Spielberg è in particolare creare un’empatia del pubblico verso questi due giovani disarmati nei confronti della vita, che minimizzano costantemente la loro posizione rispetto alla legge mentre cercano di raggiungere il loro obiettivo di riprendersi “baby Langston”.

“Ancora un’estate” come decostruzione del desiderio femminile

In questo atto di ribellione, in questo sconfinare dell’istinto e della pulsione, Breillat anziché allargare il respiro del racconto e delle immagini, stringe ancor di più e lascia che siano i lunghi primi piani di Anne a comunicare l’estasi del piacere. Del resto, Ancora un’estate non è una storia d’amore, nemmeno d’amour fou: è un film su una donna che combatte (in primis contro sé stessa) per affermare il proprio posto, il proprio diritto alla libertà, il proprio corpo e il proprio desiderio.

“Nightmare” 40 anni dopo

Nightmare non costruisce la sua tensione sui pur presenti jump scare ma sulla graduale alterazione delle regole basilari dello spazio-tempo ordinario, ovvero tramite la progressiva materializzazione del suddetto perturbante di freudiana memoria, che si applica non tanto alla figura del mostro/assassino quanto piuttosto alla terrificante interazione tra i sogni e la realtà. Wes Craven, nella sua genialità, gioca sul fondamentale bisogno che l’essere umano ha di dormire per renderlo vulnerabile alle aggressioni della sua creatura

“Felicità” come volontà di salvezza

Non stupisce che Felicità abbia vinto il Premio degli spettatori – Armani beauty della sezione Orizzonti Extra all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: l’opera di Ramazzotti presenta allo spettatore famiglie tossiche e disfunzionali, elegge a eroina una “donna storta” (parole dell’autrice), pone in evidenza la necessità di ricontestualizzare nel nostro presente il ruolo e il concetto stesso di famiglia, eppure, nel suo sostenere l’idea che tutti hanno diritto alla felicità, risulta un film poetico, delicato, emozionante.

“La signora della porta accanto” tra l’alchimia e l’amour fou

La signora della porta accanto, ventesimo lungometraggio di François Truffaut, è una storia d’amour fou nel senso più cinematografico del termine: l’alchimia tra Ardant e Depardieu è palpabile in ogni scena e il restauro in 4K permette di godere nuovamente appieno di luci, ombre e cromie che sottolineano gli stati d’animo dei protagonisti, ma è soprattutto la progressione drammatica della narrazione  a manifestare il loro graduale essere travolti dalla malattia d’amore.

“Lampi sull’acqua” ovvero la morte (di un amico) al lavoro

Wim Wenders e Nicholas Ray: due giganti del cinema, due colleghi e amici, due autorialità che si incontrano in un film che sfugge alle definizioni canoniche. Consapevoli che per il regista statunitense questo sarebbe stato l’ultimo canto, i due decidono di trasformare il progetto in una sorta di documentario sui suoi momenti finali: Ray si offre alla macchina da presa di Wenders in tutta la sua fragilità, mentre il regista tedesco accetta di compiere un atto eticamente problematico immortalando gli ultimi giorni dell’“amico americano”.

“Cortile Cascino” e la miseria di un’Italia dimenticata

A Cortile Cascino si moriva di fame, i bambini grattavano la calce dai muri per avere qualcosa da mangiare, le donne si prostituivano per sostenere la famiglia, la criminalità era all’ordine del giorno e il lavoro minorile era la normalità. Le scene di questa quotidianità sono osservate da un occhio esterno, che lascia allo spettatore l’imbarazzo di stupirsi, di provare orrore, raccapriccio, pietà di fronte all’abbattimento di un maiale, alle piccole bare coperte di fiori accatastate su un furgoncino o agli struggenti primi piani di uomini, donne e bambini dimenticati dal mondo.

Ozu e il noir intimista

Sagome nere si stagliano su un fondale bianco. Uomini che camminano, inquadrati dall’alto. Sembra un teatro delle ombre: è l’apertura di La donna della retata, film di Yasujiro Ozu, datato 1933. Un inizio che è già indicativo di un genere d’appartenenza e di un’influenza stilistica. Gangster story atipica, noir intimista frutto di un influsso esercitato sul regista giapponese dalla cultura cinematografica americana: La donna della retata (titolo originale: Hijosen no honna) è atipico anche nella stessa filmografia di Ozu, almeno quella più conosciuta dal pubblico europeo.

“Spaccaossa” e il lamento funebre del dramma sociale

È grigio il mondo di Spaccaossa di Vincenzo Pirrotta. È grigio innanzitutto a livello visivo, grazie a una puntuale e suggestiva fotografia curata da Daniele Ciprì. Il regista aveva le idee molto chiare sull’atmosfera che doveva emergere dal lavoro luministico: ricordandosi di quando da bambino assisteva alla processione del venerdì santo a Partinico (PA), voleva rievocare l’effetto che il manto nero della statua della Madonna aveva sui piccoli astanti quando ai loro occhi si trovava a coprire il sole. Questo “effetto eclissi” nel film ben delinea il mondo senza luce in cui si muovono le anime disperate del racconto.

“Acqua e anice” con la gentilezza del tocco

Anche se lo spettatore smaliziato saprà leggere tra le righe e capire in anticipo il vero scopo del viaggio, ciò non inficerà il piacere della visione perché Acqua e anice è un bel film, che ben si inserisce in una tradizione cinematografica tutta italiana non solo perché retto da una di quelle attrici che hanno contribuito a rendere grande il cinema del nostro Paese (Stefania Sandrelli), ma perché eredita dalla commedia all’italiana quel mix di dolce e amaro che riesce a far riflettere su temi importantissimi con un tocco gentile.

“Cainà ovvero l’isola e il continente” al Cinema Ritrovato 2022

C’è un che di pioneristico nella delineazione del personaggio di Cainà, protagonista dell’omonimo film di Gennaro Righelli del 1922: la ragazza che vuole fuggire da una condizione familiare e sociale tradizionale, che vuole andare lontano perché “piena di nostalgia per una terra sconosciuta”, è una figura piuttosto atipica nel panorama cinematografico di quegli anni, dove i ruoli dei personaggi femminili erano polarizzati prevalentemente sul melodramma amoroso o sull’azione estremamente dinamica delle spie o delle sportive.

“Femmine folli” dallo sguardo meticoloso e ironico

Femmine folli si è guadagnato subito un posto nella storia del cinema come “film maledetto”, segnato in fase di produzione e durante le riprese da una spesa in costante, vertiginoso aumento e da un destino difficile al montaggio, contrassegnato da continui tagli e rimaneggiamenti. Mentre però la Universal cercava di volgere a proprio vantaggio (per quanto possibile) l’escalation dei costi, pubblicandoli periodicamente su un tabellone in Times Square per creare aspettativa sulla nuova opera del regista austriaco, la gran parte delle sezioni espunte nel corso dei vari interventi andava definitivamente perduta.

“Nanook” e i confini del documentario 100 anni dopo

Nanook l’eschimese va ammirato anche per le sue insite qualità artistiche: la bellezza di certe inquadrature è indiscutibile e il paesaggio è un vero e proprio personaggio del film, che Flaherty sembra inquadrare a volte con timore, altre con soggezione. Efficace e puntuale è il montaggio, che restituisce il ritmo delle azioni di caccia e la tensione delle situazioni di pericolo; ammirevole lo “studio” sulla profondità di campo, che valorizza da un lato la vastità delle lande ghiacciate e dall’altro la cooperazione tra i membri della famiglia di Nanook per la riuscita di un’impresa.

“Nel mio nome” e la possibilità di scegliersi

L’autore centra l’obiettivo seguendo per due anni quattro amici nel periodo della loro transizione e organizzando in sei mesi di montaggio un racconto delicato, affettuoso e genuino. Raffaele, Andrea, Leonardo e Nicolò (le loro età comprese tra 23 e 33 anni) si aprono allo sguardo deciso ma sempre rispettoso di Bassetti, lasciando che la macchina da presa si inserisca nei loro spazi condivisi, nelle loro case durante le videochiamate (ricordi da una pandemia che ha stretto ancor di più le maglie di una gabbia esistenziale), nei loro sogni e nelle loro aspettative.

In ricordo di Roberto Capanna. Appunti su un Autore

Scomparso lo scorso 30 maggio, Roberto Capanna fu – tra le altre cose – uno sperimentatore, un inesauribile ricercatore delle possibilità espressive dell’audiovisivo. Membro fondatore della Cooperativa del Cinema Indipendente, collettivo costituitosi a Napoli nel 1967 e poi allargatosi all’area romana fino ad annoverare tra i suoi aderenti e sostenitori una serie di artisti e intellettuali come Alberto Grifi, Massimo Bacigalupo, Giorgio Turi, Paolo Bertetto, Mario Schifano e Claudio Cintoli, Capanna fu dedito a un’esplorazione radicale della linguistica cinematografica all’interno del cosiddetto “cinema sperimentale”.

“Noi due” e lo sguardo chapliniano sul mondo

A livello cinefilo il continuo omaggio a Charlie Chaplin e in particolare al Monello, il film preferito di Uri, è giustificato: come Charlot si prende cura del monello crescendo a sua volta come uomo, così Aharon accompagna Uri verso l’età adulta. In fondo, però, è proprio il suo il coming of age di cui ci parla Bergman. È suo lo sguardo che domina il film, uno sguardo carico di amore e attenzione, che il regista mette in scena attraverso l’uso di soggettive dirette e indirette o di inquadrature ravvicinate girate con camera a spalla che, isolando Aharon dallo spazio circostante, ne rendono lo stato confusionale di spaesamento.