Speciale Barbie I – Tesi e antitesi
Il carattere illusorio della vicenda è messo immediatamente in chiaro da Greta Gerwig nel suo film attraverso la voce fuori campo, che ci conduce all’interno dell’utopica ginecocrazia di Barbieland, dove le Barbie occupano tutte le cariche istituzionali e svolgono le mansioni lavorative più prestigiose. Nell’atmosfera si respira tutta la critica della regista verso un modello di femminismo radicale, satiricamente rappresentato a metà tra un regime dittatoriale e la fase primordiale dell’infanzia in cui il bambino si sente un unicum con l’ambiente circostante.
“Come pecore in mezzo ai lupi” e il paesaggio urbano instabile
Coinvolgente opera prima di Lyda Patitucci che, per i numerosi pregi, meriterebbe una distribuzione anche nella stagione autunnale, Come pecore in mezzo ai lupi stravolge gli equilibri del genere e di genere, presentando una donna poliziotto definita dal suo lavoro più che non dalle sue relazioni, e un criminale maschile fragile e introspettivo. Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli utilizzano al meglio la sceneggiatura di Filippo Gravino per un ritratto a specchio e complementare dei due fratelli.
“Ruby Gillman” e i tentacoli del già visto
Tutto è già ampiamente visto, prevedibile e privo di appeal. I detrattori urleranno nuovamente al plagio nei confronti della rivale Pixar (in effetti ci sono diversi punti in comune sia con il Luca (2021) di Enrico Casarosa che con Red (2022, diretto da Domee Shi) ma la questione più deludente di Ruby Gillman non è la sua scarsa originalità nei confronti dei concorrenti, quanto il suo pigro smalto che rende il progetto tra i più dimenticabili e anonimi tra quelli mai realizzati in casa DreamWorks.
“Monte Verità” e l’esperienza del mondo
Nei ripetuti confronti con il suo psicoanalista Otto Gross (che ricordano quelli raccontati da Cronenberg in A Dangerous Method), fermo oppositore delle teorie di Freud, riesce ad ascoltarsi e ad avere un’idea chiara del proprio cammino. Stefan Jäger si serve di un personaggio di finzione (una donna con la passione per la fotografia, a Monte Verità, non è mai esistita) per la costruzione della sua narrazione; indaga, così, la condizione femminile del passato ricollegandosi ad oggi.
“Coma” e l’angoscia per il futuro
Bertrand Bonello è tornato in sala, anche se in Italia per soli tre giorni, con un film coraggioso e originale. Coma si colloca alla fine di quella che il regista ha definito la “trilogia della giovinezza” dopo Nocturama e Zombi Child e riflette ancora una volta sul mondo lasciato alle giovani generazioni, annunciando, forse, la fine di un’epoca. Un film criptico, intelligente e pieno di spunti che senza moralismi affronta le angosce del presente.
“Animali selvatici” dentro i nostri confini
La forma che Mungiu decide di adottare per raccontare le sue vicende è il thriller, che si fonda sul principio di una conoscenza solo auspicabilmente piena ma in fondo precaria, carente. La disseminazione di indizi tipica del thriller è prima di tutto una disseminazione di punti di vista. Difatti il film è alla perenne ricerca di un protagonista, di un punto di vista inascoltato. In questo modo lo spettatore può vagliare le divergenti prospettive e i conflitti di una piccola comunità chiusa della Transilvania senza dover assumere per forza una posizione determinata.
“Rodeo” e la famelica arroganza
Lola Quiveron dimostra l’intento di indagare il rapporto tra una donna e un gruppo di uomini che viene ostacolata, derisa e poi temuta. Julia rappresenta una presenza “pericolosa”, perché è imprevedibile, sfacciata, indomabile; proprio per questo va placata, spenta. La sua ribellione non regge il colpo, complice (forse) anche la sua incapacità di ammettere che non tutto può essere gestito e raggirato con i suoi metodi, ma ci sono anche degli imprevisti, delle reazioni inaspettate da parte di quegli “altri” che per Julia non contano, ma di cui si serve per arrivare dove vuole e nel minor tempo possibile.
“Falcon Lake” nelle acque inquiete dell’adolescenza
Giocare con la morte, sfidarla e cercarla: l’adolescenza è pervasa anche di questo umore. In Falcon Lake, primo lungometraggio della quebecchese Charlotte Le Bon, la si contempla subito, in un corpo che galleggia a pancia in giù sulla superficie di un lago. Tanti i riferimenti cinematografici cui si appella con freschezza e riverenza la brava Le Bon. C’è soprattutto il David Lynch di Twin Peaks in quei boschi oscuri scossi dal vento, non distanti, nella geografia e nelle intenzioni d’autore, dalla cittadina in cui è (forse) morta la diciassettenne Laura Palmer a inizio anni Novanta.
“Silent Land” e l’umanità sommersa
Il film di Aga Woszczynska è un attacco diretto, critico, spietato allo zeitgeist del nostro tempo, una riflessione pessimista, forse si potrebbe dire persino nichilista, sullo stato di salute della nostra umanità il cui ultimo barlume sembra essere il patetico senso di colpa di Adam a seguito dell’incidente. Quello che resta sono solo i fantasmi che progressivamente si accumulano sulla nostra coscienza.
“A Thousand and One” e la solidarietà come resistenza
Rockwell sviluppa così un’idea di famiglia particolarmente vicina a quello del contemporaneo Hirozaku Kore’eda, maestro giapponese di profonde riflessioni sui reali vincoli affettivi che travalicano i legami di sangue. Come per l’autore di Ritratto di famiglia con tempesta, anche per la cineasta emergente la famiglia essenzialmente la si crea fondandone i pilastri su un legame che si sceglie di vivere e non che si eredita.
“99 Lune” tra piacere e paura
99 Lune ricorda alcuni film recenti (La persona peggiore del mondo, Ninja Baby). Anche Gassmann non cerca la diagnosi ma il racconto: il passato di Bigna e Frank è assente. Rispetto ai film di Trier e Flikke scompaiono anche le esplosioni di subconscio. Quello che resta sono i movimenti dei corpi nudi di Bigna e Frank, che si avvicinano, si allontanano, tremano di piacere e paura.
“Elemental” o elementare?
Quello che ci sorprende notare oggi, però, è che più di un film elementale, più che una summa delle parti che lo hanno preceduto, Elemental sia un film elementare. Sotto la superficie (sempre impeccabile, ma priva di vere intuizioni che vadano al di là della più che lodevole resa estetica) si percepisce lo sforzo di un regista ingabbiato da una produzione troppo invadente.
“Essere e avere” e la contemplazione dell’insegnamento
Racconto delicato e commovente dell’ultimo anno d’insegnamento di Georges Lopez, Essere e avere, ambientato nel piccolo comune di Saint-Étienne-sur-Usson, segue le vicende del maestro, in procinto di andare in pensione, e dei suoi tredici studenti. Apparentemente invisibile dietro la macchina da presa, Philibert, come un etologo à la Konrad Lorenz, fin dall’inizio, delinea una rassomiglianza tra il comportamento degli animali e degli esseri umani, familiarizzando con l’ambiente circostanze.
“After Work” dentro l’abisso del lavoro
After Work, con un’estetica pop e un ritmo cadenzato che ricorda quello delle macchine nelle fabbriche, mostra come il lavoro abbia assunto un ruolo centrale nelle nostre vite giungendo persino a rappresentarne lo scopo ultimo. Il sistema capitalistico è diventato così pervasivo da mutare lo spirito stesso dell’essere umano, plasmandone volontà e desideri, giungendo ad un grado di alienazione così preoccupante che siamo noi stessi a costringerci al lavoro senza il bisogno di una coercizione esterna.
“Animal House” e l’anarchia incoronata
Rivendendolo oggi, di Animal House si può dire che è a tutti gli effetti una pietra miliare, perché, oltre ad aver avuto troppe imitazioni e nessun degno erede, segna il momento più insubordinato e iconoclasta di una stagione della comicità statunitense che, frullando insieme i fratelli Marx e John Waters, poteva permettersi ancora di intendere “demenziale” come sinonimo di “politico”. Animal House è una fragorosa e pantagruelica satira dell’America wasp nonché farsa distruttiva delle aspirazioni liberal del paese più imperialista del mondo.
“Olga” e la crisi del corpo identitario
L’esordio cinematografico di Elie Grappe è interamente scandito da linee: che siano quelle degli strumenti utilizzati dalle ginnaste, quelle che dividono un corpo da uno schermo o quelle che demarcano i confini nazionali o politici poco importa. Le linee definiscono i corpi, i limiti invalicabili, determinano il reale, ma Olga non rientra in nessuna delle forme: mentre tutti intorno a lei sono perfettamente delineati, si ritrova in una dimensione ibrida dalla quale non riesce a fuggire.
“Denti da squalo” in difficile equilibrio tra simboli e realismo
Denti da squalo è tutto giocato su una stratificazione di significati simbolici, oltre che dal referente concreto. Così lo squalo viene a rappresentare la paura del vivere, la violenza che dobbiamo impersonare per farci rispettare, ma anche il suo contrario, l’anelito verso la libertà e il rifiuto di costrizioni e modelli sociali. Allo stesso tempo, lo squalo è anche un personaggio della narrazione a cui imprime una svolta finale certamente di presa emotiva, pur se non molto credibile.
“Spider-Man: Across the Spider-Verse” tra canone e trasgressione
Al di là degli evidenti aggiustamenti allo zeitgeist, questo Spider-Verse, per quanto visivamente immaginifico, dal punto di vista del racconto resta paradigmatico del genere supereroistico: l’avventura e l’azione si mescolano con tormenti personali e affettivi di stampo mitico, il tutto in un humus di ironia e autocitazionismo tipici del post-moderno. Spider-Man: Across the Spider-Verse è consapevole della sua tradizionalità narrativa di fondo, e furbescamente tematizza al suo interno il tentativo di discostarsene parzialmente secondo modi che intercettino la sensibilità odierna.
“Billy” e gli spazi della solitudine
“Bisogna pur credere in qualcosa, anche se non esiste”, dice la madre a Billy. Questa, sembra essere la stessa constatazione che ha permesso alla regista di portare avanti il suo progetto apparentemente focalizzato su un unico personaggio, ma, in realtà, corale e di fare della semplicità la sua inattaccabile cifra stilistica. Semplicità – e modestia dei mezzi – che rimandano anche alla fotografia di Luigi Ghirri, a cui la regista ha espressamente dichiarato di ispirarsi.
“Dalíland” e la distanza tra l’essere artisti e amare l’arte
Mary Harron sembra partire da un presupposto che, dal principio, le serve per assicurarsi una piena riuscita del suo ritratto. Raccontare in una pagina personaggi così complessi è impensabile. Anzi, surreale. E lei, da professionista in biografie ne ha piena consapevolezza. Dalíland è, piuttosto, una riflessione sull’arte inserita in un contesto di atmosfere festaiole, dettami dell’industria culturale che gravano sulla creatività degli artisti, manie, ossessioni e ipocondrie di un genio capace di definirsi e perdere i contorni di se stesso con la stessa naturalezza.
“Sanctuary” e la disparità del potere
Diventa difficile capire se si stia assistendo a un thriller psicologico/erotico, a un sardonico dramma sentimentale o a un’anomala commedia romantica. Ed è forse in questo sfacciato rompicapo che Sanctuary trova la sua cifra più distintiva, dato che lo sviluppo narrativo ricalca molti aspetti di Secretary e la suggestione sulla camera da letto come luogo di verità psicologica suprema, spaventosa da affrontare, è già stata toccata in varie altre sedi, da Ultimo tango a Parigi a Una relazione privata.