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“L’infernale Quinlan” e la diva Marlene

Annunciato da Newsweek come la grande occasione per il ritorno a Hollywood del prodigio Welles dopo dieci anni trascorsi in Europa, L’infernale Quinlan (1958) ebbe invece una lavorazione complicata che culminò con la decisione della Universal di esautorare il regista dalla postproduzione e incaricare Harry Keller di dirigere alcune scene per migliorare la continuità e la comprensibilità del film.

Il cinema giocoso di Stephanie Rothman

Tra l’horror e il cinema d’exploitation Stephanie Rothman è stata una delle pochissime registe donne a riuscire a ritagliarsi uno spazio nel mainstream americano, trovando anche una certa indipendenza e autonomia nella direzione dei propri film. Con una formazione da sociologa (si è laureata in sociologia a Berkeley) e una predilezione per i film a basso costo, Rothman è riuscita a delineare all’interno del genere uno stile del tutto unico e originale.

Case che crollano nel cinema siriano

Case che crollano, case infestate da zombie ronfanti. Nei primi due lungometraggi scritti da Ossama Mohammed (Stars in Broad Daylight, da lui diretto, e Al-Leil di Mohammad Malas), la casa, metafora della Siria, ha pareti fragili o mediocri padroni. Un dittico che può dirsi complementare sul centro vuoto del paterno a cui supplisce una ridicola deriva autoritaria, sulle storture di una società conservatrice e religiosa e sull’impotenza di trasformare lo stato delle cose da parte dei civili.

“Tirate sul pianista” in totale libertà artistica

Si rimane storditi a ogni cambio di passo, perché ciò significa abbandonare il poliziesco per lasciarsi condurre in una storia romantica o scontrarsi improvvisamente e inaspettatamente con una tragedia. Lo stesso Truffaut era consapevole del fatto che questo film sconcertasse tutti e anche oggi molte scelte registiche e narrative stupiscono ancora. Tirate sul pianista rende libero un racconto che non dovrebbe esserlo.

“Judex” e le avventure (moderne) in serie

La Gaumont, dopo gli strepitosi successi del genio del male Fantômas e di Les Vampires (con la seducente e oscura apache dedita al crimine interpretata da Musidora) propone a Louis Feuillade di realizzare una nuova serie con un eroe positivo, difensore della legge e della sicurezza, tenendo conto delle pressioni dell’opinione pubblica e della prefettura di polizia francese che non vedeva di buon occhio l’enorme seguito conquistato dalle precedenti produzioni in un periodo di dilagante criminalità nella metropoli.

“Die Martinsklause” e lo scontro tra due culture

Die Martinsklause è quindi parzialmente legato a una legenda simbolo della storia di una valle inospitale e rocciosa della Baviera che, ancora oggi, richiama molto turismo proprio per il monastero fondato da Eberwin. L’iconografia tradizionale è poco presente nel film, se non per quanto riguarda i costumi che però scadono in un kitsch involontario contornato da dialoghi superficiali e da storie d’amore improvvisate.

“Surcouf” simbolo dell’epoca

Surcouf di Luitz-Morat (1924) vede la luce in un momento particolare del cinema francese in cui andavano di moda da una parte storie estremamente romanzate di personaggi storici realmente esistiti e dall’altra un gusto per le storie di avventura dal sapore esotico, specie orientale. Robert Surcouf è un corsaro realmente esistito a cavallo tra ‘700 e ‘800 che combatté contro la flotta inglese nei mari dell’India. 

I corpi del cinema di Boris Barnet

Barnet rimane semplicemente fedele alla grazia che questi corpi sanno già da soli emanare. Che sia un anonimo viandante, un consumato contadino, un fulgente giullare o un solerte colosso, Barnet non vede differenze perché tutti quanti provengono da una stessa radice umana, da un medesimo impeto terreno, da un condiviso sguardo gentile verso il mondo e i suoi abitanti.

One Woman Show. Ancora su “The Wind” e il potere delle immagini

Come già nelle sue opere precedenti (in particolare nel capolavoro Il carretto fantasma, del 1921), Sjöström si dimostra ancora una volta maestro nel piegare la tecnologia al servizio dell’arte: per dare visualizzazione all’anima del “vento del nord” realizza sovrimpressioni e doppie esposizioni con le immagini di un cavallo, che simboleggia – secondo le credenze degli indiani che abitano il deserto – proprio lo spirito del vento.

“Blues in the Night” e la musica come costruzione identitaria

Storia delle disavventure di un gruppo di jazzisti e di come una femme fatale porti il pianista Jigger Pine (Richard Whorf) a una crisi musicale e d’identità tra le notti fumose di un locale gestito da un criminale, Blues in the Night (1941) di Anatole Litvak è il campo audiovisivo di una discussione identitaria: come la musica blues e il movimento jazz si fanno portavoce di una necessità espressiva, di un bisogno profondo dell’individuo di sentirsi libero e rappresentato. Ad ogni costo.

Le “Profondità misteriose” di Pabst

Quando nel 1947 Pabst riuscì a fondare la Pabst Kiba Filmproduktion diresse quattro film, tra cui Profondità misteriose. Questo elegante film d’intrattenimento, incentrato sul tema del matrimonio, fu scritto dalla moglie Gertrude (Trude) e dallo scrittore Walther von Hollander, già sceneggiatore di I commedianti. Profondità misteriose non rientra sicuramente tra le opere migliori di Pabst, ma rimane comunque un film che permette di avere una visione più completa della sua poetica.

Janet Leigh attraverso lo specchio americano fra “Atto di violenza” e “L’infernale Quinlan”

Esattamente dieci anni separano i due film con protagonista Janet Leigh. Atto di violenza (1948) appartiene ancora alla stagione iniziale del noir. L’infernale Quinlan (1958)  di Orson Welles, è spesso identificato come il film che ne chiude il ciclo. Nonostante la distanza, le interpretazioni di Leigh (che stanno come fermalibri ai due capi del noir) sono legate da più di un’assonanza, facendo dell’attrice un elemento sottovalutato di quella che in entrambi i casi è la dissolvenza al nero dei valori in cui si identificano gli Usa di allora.

“Atto di violenza” sulle cicatrici della guerra

Zinnemann parte da un pretesto in stile revenge movie – Frank si è macchiato di tradimento nei confronti dei suoi compagni e ora Joe li vuole vendicare uccidendolo – per costruire una storia di lenta ma serrata discesa negli inferi del senso di colpa. I passi strascicati della zoppia di Joe risuonano per tutto il film come il ticchettio di una bomba a orologeria, scandendo il tempo che rimane a Frank prima della deflagrazione finale: la resa dei conti col passato che lo insegue.

“L’immorale” o l’amore ai tempi del Boom

In “L’immorale” è possibile riscontrare i temi cari a Pietro Germi (i modelli sociali maschili e femminili, la famiglia, i rapporti umani e affettivi, ecc.) trattati però con toni più pacati, più morbidi. Non che il regista abbia perso la sua vena critica, piuttosto constata che quel mutamento collettivo intuito e allertato un decennio prima era irreparabilmente avvenuto, e ormai non si poteva che osservarne le tragicomiche conseguenze.

“J’ai tué!” e l’orientalismo divistico

Sessue Hayakawa, seppur giapponese, riuscì a ritagliarsi un piccolo spazio come divo nel cinema muto statunitense ed europeo. Non fa eccezione J’ai tué! di Roger Lion, regista specializzato in storie sentimentali. Questa volta il personaggio interpretato da Hayakawa si ritrova paracadutato in un contesto borghese alle prese con un intrigo amoroso con tanto di ricatto. 

“The Protagonists” e il true crime pionieristico

Lo spettatore, perso nei manierismi e giochi creativi di un regista all’epoca ancora acerbo, a tratti si dimentica quasi che il fatto narrato sia realmente accaduto. Ovviamente questo è anche sintomo del fatto che The Protagonists è un film d’esordio, dopo il quale Guadagnino ha saputo crearsi una carriera ricca di successi e ottimi riscontri da parte della critica.

“I Disperati di Sandór” e i rapporti di forza della Storia

Il cinema politico di Miklós Jancsó ha il potere di ristabilire i rapporti di forza occultati dalla Storia, convertendo episodi anche poco conosciuti della vicenda nazionale ungherese in arcate narrative di assoluto rigore visivo. Alla ricostruzione esplicativa dei fatti subentra una lucida esegesi delle invarianti e delle trappole dei processi contro-rivoluzionari, e in generale della violenza fisica e ancor più psicologica indispensabile agli ordinamenti sociali dell’età moderna.

“Quo Vadis?” cento anni dopo

Dopo la visione rimangono impresse le scene dei grandi banchetti ma anche quelle delle persecuzioni dei cristiani nell’arena, tra persone sbranate dai leoni, corse delle bighe con persone legate e trascinate a terra senza dimenticare il celebre combattimento a mani nude tra Ursus e un toro. Non manca una componente erotica piuttosto marcata usata per dare un ulteriore contraltare drammatico alla depravazione dei romani sotto Nerone e alla rettitudine dei cristiani.

“Tropici” di Gianni Amico tra finzione e documentario

È il 1962 quando Gianni Amico si reca per la prima volta in Brasile, sulle tracce di due sue grandi passioni: il Cinema Nôvo e la musica latinoamericana. Ed è nel 1968 che esce, dopo alcuni corti e mediometraggi, il suo primo lungometraggio di finzione, Tropici. Attento alla lezione rosselliniana, Amico porta sullo schermo con intento didattico e politico quello che prima non pareva degno di essere raccontato e posto all’attenzione del pubblico occidentale. E lo fa con pudore, con quel tanto di finzione necessaria a mettere in scena una storia minima esemplare.

“Caino!” Heimatfilm realista

Sulle montagne del Tirolo il giulivo Franz ha una brutta dipendenza: la caccia di frodo. La sua mira è impeccabile, molto meglio di quella del guardiacaccia che lo odia profondamente sia per il suo vizio, sia perché si contendono l’amore e la mano di Sanna (Maria Stolz), la figlia del tintore. Caino! di Harald Reinl è di un’importanza storica notevole perché è il primo adattamento di un testo di Adalbert Stifter, uno dei massimi scrittori in lingua tedesca del Diciannovesimo secolo.