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“Il mondo sul filo” 50 anni fa

Il mondo sul filo, tratto dal romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye e girato in quarantaquattro giorni, durante una pausa nella produzione di Effi Briest, rappresenta l’unico film di fantascienza di Fassbinder: prigioniero nella vita reale di una parabola simile alla sorte del suo Vollmer, intellettuale prolifico e sensibile, anche qui capace di far emergere il suo cinema, riuscendo ad andare ben oltre la semplice distopia.

“Alice, Darling” sul filo del rasoio tra thriller e dramma

Per il suo debutto nel lungometraggio, Mary Nighy porta sugli schermi Alice, Darling con la perfetta fidanzatina d’America Anna Kendrick, quasi a dimostrazione di come anche nel mainstream la sensibilità sul tema dell’abuso nelle relazioni di coppia sia decisamente cambiata rispetto ai tempi di A letto con il nemico (1991). Se là tutto si giocava sul piano della violenza fisica, ora invece siamo sul piano di quella eminentemente psicologica.

“Toro scatenato” fuori dal sogno americano

“Datemi un’arena, Jack il Toro si scatena”. Non sempre. Non solo cazzotti, ma anche gangsterismo, religione e musica. Le note di Pietro Mascagni assolvono “Bob-Jake” dalle sue colpe mentre viene massacrato sul ring. L’arena sembra quasi trasformarsi in un confessionale dove fare i conti con paure e pulsioni e dove pentirsi: Jake Vs LaMotta. I pugni devono fare male, i duelli non debbono mostrare la tecnica. La mancanza di strategia elegge il combattimento di boxe a categoria dello spirito.

“Guardiani della Galassia Vol. 3” più adulto e riuscito

I fan della saga e della Marvel in generale avranno motivo di apprezzare Guardiani della galassia vol. 3, un grande more of the same realizzato con gusto, conclusione dell’unica serie MCU con una coerenza stilistica interna. Considerando Guardiani della galassia vol. 3 come opera autonoma, ci si trova dinnanzi a un ottimo film d’intrattenimento con una buona profondità drammatica e che non fa soffrire affatto le sue due ore e mezza di lunghezza.

“Gli ultimi giorni dell’umanità” e la poesia della teoria

Il montaggio di Alessandro Gagliardo gioca con la durata e trasforma la “poesia della teoria” di Ghezzi in pratica filmica creando relazioni sorprendenti e generando il senso a partire da un vuoto prodotto dallo scontro di materiali difformi, come nel cinema di Chris Marker o nella produzione video di Jean-Luc Godard. Rispetto a una scomparsa della realtà, l’etica ghezziana cerca ancora di “cogliere la realtà nei brandelli” attendendo fiducioso un nuovo incrocio di sguardi, una nuova relazione con le immagine, una nuova umanità. Di fronte al terrore della fine, ci chiede un ultimo sforzo per trattenere un brandello di realtà, di umanità, di desiderio.

“Mediterranean Fever” come riflessione sulla finitezza

Mediterranean Fever, miglior sceneggiatura a Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022, è una riflessione sulla finitezza, sul dramma del saper vivere proposto con un’impronta personale supportata da un’ironia cechoviana che esalta il privilegiato egoismo e il libero lamento. C’è, poi, l’inquietudine delicata della questione palestinese vissuta da cittadini arabi nello Stato d’Israele, ma non si trasforma in una discussione (inesauribile) sui massimi sistemi, né assume un tono incattivito, e tantomeno “bellico”.

“Cane che abbaia non morde” e il cinema del sottosuolo

Riconosciamo l’insolubilità di registri (satira sociale, melodramma domestico, orrore suburbano) che Bong eredita dalla contradditoria storia dell’industria cinematografica coreana. Il regista di Taegu esplora con curiosità etologica il sottosuolo strutturale e morale del proprio paese (forse di ogni paese), brulicante di affaristi, pusillanimi e idealisti delusi, con toni tanto violenti e onirici quanto parodici presi in prestito da Panelstory di Vera Chytilova, sorta di novellino sui prefabbricati sovietici in costruzione.

“Suzume” e il terremoto nell’immaginario

Balza subito allo sguardo e all’orecchio la parola chiave che è il filo conduttore di Suzume, ultima fatica di Makoto Shinkai: terremoto. Un lutto non ancora del tutto superato quello del Grande terremoto del Giappone orientale del 2011 e ancora in corso di elaborazione dopo più di dieci anni. Se in La casa degli smarriti sul promontorio (Shinya Kawatsura, 2021) il sisma è solo il punto di partenza di un percorso di guarigione individuale, in Suzume il sottotesto traumatico viene mantenuto vivo e alimentato da un viaggio disperato contro il tempo.

“Mon Crime” ultimo tassello della trilogia femminista di Ozon

Liberamente ispirato all’omonima pièce teatrale del 1934 (scritta da Georges Berr e Louis Verneuil), il film rende omaggio sia al teatro coevo che alla leggerezza della screwball commedy dell’epoca d’oro del cinema hollywoodiano anni Trenta e Quaranta, una fortunata formula plasmata da registi tedeschi come Ernst Lubitsch e Billy Wilder, premiatissima dai botteghini, fatta di dialoghi serrati e toni caustici tra i due sessi che decostruiscono gli stereotipi di genere, gag inverosimili e improvvisi colpi di scena.

“L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice” e la coazione a ripetere

La filmografia di Alain Guiraudie è caratterizzata dal binomio tra concreto ed inconscio, capace di tenersi in sospeso tra le due “soluzioni”. Ne L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice si (ri)presentano le caratteristiche del suo cinema: l’erotismo, la dimensione del sogno che consente alla temporalità di mantenersi indefinita, spesso priva di segni identificativi, i rituali scanditi da atti sempre uguali che trasformano i personaggi in pedine.

“Beau ha paura” in un’odissea con una vita in mezzo

Beau ha paura è un’odissea con una vita in mezzo (una nascita all’inizio e una morte alla fine). Il punto A è l’appartamento di Beau e il punto B è la casa della madre. Nel tragitto ci sono un’altra casa e un bosco. Poi dei senzatetto minacciosi, genitori apprensivi e compagnie teatrali espansive. I luoghi sono suddivisi con ordine e ritmo, il resto è un labirinto in cui tutto riconduce alla madre, ma rimanda sempre al protagonista.

“Beau ha paura” e l’esorcismo del trauma

Beau ha paura è senza ombra di dubbio un’opera sui generis, eversiva e visionaria, che non lascia indifferenti dopo la sua visione. Nonostante le fascinose trovate fotografiche o registiche e le performance attoriali, il film pecca di smodata ambizione. Di certo, Ari Aster rimane una delle voci più intriganti e innovative del cinema contemporaneo e chissà se dopo queste tre ore di puro esorcismo dei traumi, il cineasta verrà difeso o meno dal suo pubblico o se lo stesso assisterà totalmente inerme come quello dello stravagante tribunale nell’ultima sequenza dell’epopea psichedelica.

“Cocainorso” e l’irriverenza creativa

Cocainorso è straniante, ma non privo di un certo fascino. Nella sua esuberanza senza freni e nella mancata ricerca di un compromesso tra violenza e comicità, le quali non sono sintetizzate ma sovrapposte, il film riesce nel suo proponimento di intrattenere senza particolare sforzo. E lo fa secondo le proprie regole, esagerando ma senza dare l’impressione di perdere totalmente il controllo, concedendo finanche degli sporadici momenti di tenerezza che suonano da contrappunto ristoratore alla cacofonia dominante.

“Il sol dell’avvenire” speciale II – La politica e l’amore

Succede quello che nel cinema di Moretti accade spesso, dai tempi di Aprile, del Caimano, del già citato Mia madre. Che la vita entra nel cinema, cambiando il film che si sta girando, boicottandone le riprese. Si intrufola sul set sotto forma degli oggetti di oggi che continuano a comparire nelle scenografie anni Cinquanta, si oppone alle intenzioni del regista facendo innamorare gli attori, mandando in galera i produttori. Trasformando un film politico in un film d’amore.

“Il sol dell’avvenire” speciale I – Una dichiarazione d’amore

Si riannodano i fili di un percorso cinematografico che dura da cinquant’anni, fatto di idiosincrasie, fissazioni, facce stupite e recitazioni stranianti, viaggi, diari e giornali, canzoni italiane ascoltate, ballate e ostinatamente cantate, di impegno politico dentro e fuori dal set, di film girati o desiderati, di lettere mai spedite e pasticceri trozkisti, di madri reali, immaginate, evocate o sublimate, di attori che sono il corpo e la sostanza stessa di un percorso poetico, in quella che è la più struggente e radicale dichiarazione d’amore verso il cinema che Moretti abbia mai messo in scena.

“Amira” e la fotografia come atto di resistenza  

In Amira si presenta la necessità di raccontare mantenendo, però, sempre una profonda aderenza alla realtà. Di indagare le radici di un odio che non si può risolvere soltanto in una questione genetica. Diab vuole raccontare una e più verità, come diceva Pirandello in una delle sue commedie più conosciute, “Così è (se vi pare)”: “La verità non ha volto, e ha tanti nomi quante sono le persone. “Chi sono?”, diceva un personaggio, “Io sono colei che mi si crede”.

Del mito e dell’eroe. La decostruzione di Rocky nella trilogia “Creed”

La trilogia di Creed ideata da Coogler diventa più che un’astuta operazione di marketing per sfruttare l’ormai appannata fascinazione del “marchio” Rocky facendosi vero e proprio smantellamento del mito del suo protagonista. Una rivisitazione che, pur rispettosa del personaggio, porta il discorso su altri territori nuovi e distanti dalle dinamiche originali. Un rinnovamento dell’idea stessa dell’America che tenga conto di una realtà ben più complessa e articolata con cui ora è inevitabile fare i conti.

“I passeggeri della notte” leggero come una piuma

È leggero come una piuma Passeggeri della notte, e ciò è probabilmente il suo più grande pregio e il maggior difetto. Gli anni Ottanta vengono restituiti da Hers accostando differenti grane e formati in maniera molto libera, utilizzando anche immagini d’archivio e riprese ex novo volutamente imperfette con una fotocamera Bolex, senza darsi alcuna pena di uniformità tecnica, ricreando il periodo con naturalezza, all’impronta. Non mancano qua e là degli omaggi: il più evidente è quello a Le notti della luna piena di Éric Rohmer.

“La generazione perduta” tra militanza e dipendenza

La generazione perduta restituisce con grande lucidità il profilo di un cronista balzacchiano, affamato di storie e contatti umani, capace come nessun altro di raccontare in presa diretta quei fenomeni e quei fatti dal centro del magma che li generò; ma anche il ritratto di un ragazzo generoso e fiero, pronto a rivendicare una forma privata di nichilismo e segnato da un «coraggio dettato dalla disperazione»: con queste parole lo descrive nel libro Francesca Comencini, che frequentò Rivolta nei suoi ultimi anni ma non ha partecipato al documentario. 

“Mia” di nome e di fatto

Ivano De Matteo (al suo settimo lungometraggio) incentra la narrazione su due tematiche: il possesso e i luoghi comuni. Mia non è solo il nome della giovane quindicenne, è anche la rappresentazione di un’idea di appartenenza continuamente ribadita. “È mia, non più tua”, dice Marco a Sergio quando – ormai – pensa di aver acquisito il diritto di rivendicare il suo dominio. Il nome della ragazza, poi, viene ripetuto incessantemente, come a voler insistere sull’idea, in parte anche esasperandola.