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“Judex” e le avventure (moderne) in serie

La Gaumont, dopo gli strepitosi successi del genio del male Fantômas e di Les Vampires (con la seducente e oscura apache dedita al crimine interpretata da Musidora) propone a Louis Feuillade di realizzare una nuova serie con un eroe positivo, difensore della legge e della sicurezza, tenendo conto delle pressioni dell’opinione pubblica e della prefettura di polizia francese che non vedeva di buon occhio l’enorme seguito conquistato dalle precedenti produzioni in un periodo di dilagante criminalità nella metropoli.

“Die Frau, nach der man sich sehnt” e l’invenzione di Marlene

Si naviga del mare del melodramma, con i vizi e le virtu’ polarizzate in un triangolo micidiale in cui non ci saranno vincitori ma solo vinti; nell’interpretare la femme fatale Marlene Dietrich si spinge un gradino più in su della mera rappresentazione, la vita vissuta appare come un ruolo assegnato dal fato quale disegno drammatico e irrevocabile, al quale la protagonista non potrà sottrarsi, pagando con la vita.

“Chemi Bebia” tra avanguardia e politica

In un mix di commedia slapstick e surrealismo grottesco, Mikaberidze utilizza molte delle cifre stilistiche di ripresa e delle tecniche di montaggio messe a punto dall’avanguardia russa per sorprendere e disorientare il pubblico, dando forma a un film fortemente politico. Pur condannando l’inefficienza e elevando il proletariato operaio allo status di dio annientatore il film fu tacciato di eccessivo formalismo e di proporre un modello negativo del regime.

“L’angelo azzurro” depoliticizzato ma vibrante

Nell’adattamento cinematografico von Sternberg opera una depoliticizzazione del romanzo originario, che era una sorta di critica alla falsa morale e ai valori corrotti della borghesia tedesca, eliminando la masochistica ribellione del professor Immanuel Rath (interpretato da Emil Jannings) contro la società e focalizzandosi invece sul suo desiderio di abnegazione per la soubrette Lola-Lola. 

“Turn in the Wound” e la poesia del dolore

È davvero una creatura aliena il documentario geo-politico Turn in the Wound di Abel Ferrara, presentato alla Berlinale 2024 nella sezione Berlinale Special e al festival bolognese Biografilm 2024, che fonde le drammatiche immagini della guerra in Ucraina e le parole dei soldati, dei superstiti che vivono nelle zone di combattimento e quelle del presidente Zelensky con la voce di Patti Smith, icona pop- rock americana, che recita opere di Artaud, Daumal e Rimbaud.

“Reas” e la danza della comunità

Tutti i personaggi del film, illuminati da una inaspettata poesia, rinascono insieme in un flusso costante di nuovi sodalizi e legami, vivendo con coraggio e con consapevolezza il proprio corpo, spesso tatuato coi nomi di amori del passato; la forza ritualizzata delle pratiche di voguing e di cumbia villera nel cortile del carcere, le performance con la band pop-rock nelle anguste stanze della prigione, diventano per ognuno di loro fonte di empowerment e potente affermazione del sé.

“Niente da perdere” e da sperare

La scelta di Virginie Efira come protagonista del film, stella nascente del cinema francofono, già nota per i ruoli in Sibyl (2019), Benedetta (2021) e Il coraggio di Blanche (2023), è semplicemente perfetta per il ruolo di una madre che lotta per riavere suo figlio, riuscendo in maniera efficace a restituire la rappresentazione di una umanità eccentrica, che afferma potentemente il diritto di essere una buona madre anche al di là di rigidi tracciati socialmente accettati.

“Back to Black” tra biografia ed ecologia dello sguardo

Supportata dall’ ottima fotografia di Polly Morgan, Sam Taylor-Johnson pone l’enfasi sulla moda e l’amore della cantante per lo stile pin-up, realizzando la ricostruzione filologicamente impeccabile di sequenze di concerti e reinterpretando in chiave narrativa alcuni videoclip dell’artista. In questo la regista sfodera tutto il background che la rese celebre negli anni ‘90 come video-artist e fotografa col gruppo degli Young British Artist, che risollevarono le sorti dell’arte contemporanea inglese portando alla ribalta un gruppo di studenti del glorioso Goldsmith College.

“Viaggio in Giappone” sulle spalle di Isabelle Huppert

Il film eccelle per la performance di Isabelle Huppert, la cui immensa statura attoriale, pluripremiata nei più importanti festival internazionali, le consente di virare dal drammatico al buffo attraverso una interpretazione magistrale delle infinite sfumature di Sidonie, un personaggio femminile coraggioso che evolve in modo graduale, quasi impercettibile nel suo ritorno alla vita, al futuro e di nuovo all’amore, sulle note al piano di Bach e di Ryuichi Sakamoto.

“Diabolik – Chi sei?” secondo lo sguardo di Eva Kant

Se l’intera trilogia costituisce un’esperienza visiva singolare e seducente per l’uso sapiente del colore e per il rigore filologico nel trasporre sullo schermo l’eleganza stilizzata delle tavole originarie, nell’ultimo capitolo i Manetti Bros abbandonano parzialmente la scelta stilistica di aderire alla fissità grafica dei fumetti che in qualche modo congelava l’azione nei due film precedenti e sviluppano la diegesi del film su più linee narrative, mischiando registri stilistici ed epoche differenti.

“The Old Oak” e la disgregazione della società

Il regista per l’occasione rispolvera tutto il suo glorioso armamentario anti-thatcheriano (che ha caratterizzato parte della sua produzione degli anni 80 e 90 falcidiata dalla censura governativa), per mostrarci come quelle comunità inglesi che un tempo furono socialmente molto unite si siano trasformate nelle più ostili agli stranieri, e la fonte dell’odio è rinvenibile in quella disgregazione e nell’isolamento.

Barbara Hammer pioniera underground

Il cinema sperimentale della regista americana, realizzato prevalentemente in formato ridotto, costituisce un laboratorio artistico e politico, sin dai primi lavori realizzati con la Super-8, che si sostanzia in una sorta di processo creativo e contemporaneamente in un lavoro di costruzione identitaria. Nata ad Hollywood nel 1939, il suo lascito è una  feconda testimonianza culturale di film sperimentali, arte visiva, scrittura, performance, conversazioni e interventi che documentano altre identità e desideri possibili

Le Giornate del Cinema Muto 2023. Un bilancio

Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, dirette da Jay Weissberg, nate nel 1982 dalla collaborazione tra la Cineteca del Friuli di Gemona e Cinemazero di Pordenone e giunte ormai alla 42esima edizione, sono una cornucopia dispensatrice di seminari, pellicole rare, nuovi restauri e classici del cinema muto, richiamando nel consueto appuntamento di ottobre cinefili e studiosi internazionali del cinema degli esordi.  

“Le mie poesie non cambieranno il mondo” e l’ispirazione della vita quotidiana

Le mie poesie non cambieranno il mondo, è il documentario presentato in anteprima alle Giornate degli autori dell’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia (prodotto da Fandango e Rai Documentari), che la giornalista Annalena Benini e lo scrittore Francesco Piccolo hanno dedicato al racconto dell’ultimo tratto di vita della poeta Patrizia Cavalli (come amava definirsi) e all’immortale scia luminosa lasciata dai suoi versi.

“Film Blu” trent’anni dopo

L’allure che negli anni ‘90 circondava la Trilogia dei colori (Film Blu, Film Bianco, Film Rosso) del regista polacco Krzysztof Kieslowski a distanza di trent’anni potrebbe sembrare forse un po’ sbiadito, eppure l’intera serie recentemente restaurata in 4K, conserva inalterato almeno il fascino di un poema di intensa stranezza, di un trittico ambientato in un luogo anfibio a metà strada tra il mondo reale e l’immaginario, che rappresenta al contempo una riflessione antropologica sui sentimenti dell’essere umano e una insolita esperienza estetica per lo spettatore.

“La Souriante Madame Beudet” e il potere emancipatorio dell’immaginazione

Se l’abilità della regista consiste mettere al servizio dell’impegno femminista la sua ricerca per lo sviluppo del linguaggio cinematografico La Souriante Madame Beudet di certo è un capolavoro particolarmente riuscito sotto questo aspetto. Allontanandosi da una rappresentazione realista e abbracciando un linguaggio onirico, mentre elabora una nuova sintassi cinematografica nel film ci offre una diversa immagine della femminilità, dove (anche) al genere femminile è concesso di desiderare e che tale desiderio può portare ad una sottile rivoluzione.

“Miss Dorothy” e la maschera tragica di Dianne Karenne

Quando interpreta Miss Dorothy nel 1920 (per la regia di Giulio Antamoro) Diana Karenne ha perfezionato una tecnica espressiva tale da realizzare una interpretazione magistrale della protagonista, una altera istitutrice anglosassone dalla doppia identità che vigila sulla felicità della figlia abbandonata a causa di un amore clandestino del passato. Un tempo era Thea, una concertista innamorata e ricambiata dal conte Ruggero di Sambro, ma la differenza di classe impedisce ogni possibile lieto fine.

La “Passione tsigana” di Diana Karenne

Di certo la più intelligente delle dive, come la definì il critico Tito Alacci nel 1919, Diana Karenne aveva un’indole proteiforme perché, pur aderendo ai cliché divistici della donna fatale, enfatizzandone i tratti più esotici, cercò di affermare la propria autonomia di sguardo partecipando anche come regista, sceneggiatrice e produttrice (tramite la Karenne Film da lei fondata) al cinema dei primi tempi. Con il film Passione tsigana, diretto nel 1916 da Ernesto Maria Pasquali per la torinese Pasquali film, l’attrice di origini (probabilmente) ucraine, arrivata da poco in Italia, conquista le luci della ribalta.

“Braciere ardente” e il poliedrico talento di Ivan Mosjoukine

Proiettato per la prima volta il 1 giugno 1923 alla Salle Marivaux di Parigi, l’opera fu acclamata dalla critica dell’epoca che ne riconobbe l’originalità e per alcuni versi la modernità del linguaggio cinematografico, in grado di accogliere in alcune sequenze come quella dell’incubo, le soluzioni formali (dissolvenze, montaggio veloce, indagine psicologica dei personaggi) del coevo impressionismo francese.

I dischi illustrati di Germaine Dulac

Come regista che ha espresso potentemente l’estetica impressionista contribuendo all’ evoluzione del linguaggio cinematografico, Germaine Dulac anche nei suoi pioneristici “dischi illustrati” porta lo spettatore in un viaggio nella psiche interiore dei suoi personaggi, saldando in un sodalizio inscindibile il registro narrativo con la sperimentazione formale e realizzando la messa in scena dell’esperienza psicologica dei personaggi attraverso l’uso del primo piano e di peculiari tecniche di ripresa, sovraimpressioni e dissolvenze per rendere la loro complessità.