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La potenza del troppo – Speciale “House of Gucci” I

Si ha l’impressione che House of Gucci voglia riproporre una lettura pop-satirica un certo modo di vivere un tipo di vita (una vita per pochi) impregnata di comportamenti e personaggi eccentrici, a tratti macchiettistici e in altri casi leggeri e senza riserve; è un lungometraggio che poteva fare a meno di certi errori/orrori (ripetiamo lo scivolone di Jared Leto), di dialoghi contraddittori e inesattezze spazio-temporali, ma la cui potenzialità sta nel definirlo “troppo”. Purché se ne parli, appunto.

“The Unforgivable” e il personaggio mancato di Sandra Bullock

The Unforgivable di Nora Fingscheidt (nota per Systemsprenger, in concorso alla Berlinale del 2019), nonostante i preziosi contributi di Guillermo Navarro alla fotografia e di Hans Zimmer alle musiche, è una narrazione svuotata: scarica Sandra Bullock, non la valorizza, la indirizza molto velocemente verso il finale, e non le dà il tempo di compiere un’evoluzione. Il suo personaggio, Ruth, che immaginiamo essere pieno di complessità e sfaccettature, risulta piatto e, mancanza grave in una storia, non sembra adempiere a un cambiamento doveroso.

Zerocalcare autore totale. “Strappare lungo i bordi” e la generazione invisibile

I problemi dei “giovani d’oggi”, il precariato, gli amori confusi, la sensazione di essere mille passi indietro rispetto a chi riesce a concretizzare rapidamente le proprie aspirazioni, il futuro indefinito, la morte e il suicidio sono solo alcuni dei numerosi aspetti che Zerocalcare analizza con brutale schiettezza, calandoli uno per uno in ciascun episodio e incatenandoli a una trama orizzontale, quale percorso di crescita e di formazione dello Zerocalcare uomo e personaggio, dall’infanzia e dall’amicizia, all’età adulta e all’esperienza dell’elaborazione del lutto. La forza e il successo di Zerocalcare, autore totale, non risiedono solo nel talento artistico, immaginifico e produttivo, ma nel raccontare la nostra realtà per quella che è davvero, mai perfetta come vogliamo far credere.

“Il Mostro della cripta” dichiarazione d’amore per gli anni Ottanta

in Il Mostro della cripta, Misischia racchiude tutta l’immaginazione in un’estetica da cinema horror-demenziale, volendo essere coscientemente imperfetto, e quindi reale, nella continuità di montaggio spesso approssimativa, nella recitazione dialettale (parlano pressoché tutti in cadenza emiliano-romagnola), nel finale abbozzato e non davvero chiuso del tutto. Le citazioni alle pellicole cult sono tante (Shining, I Goonies, Alien, Ritorno al Futuro, Ghostbusters, solo per nominarne una manciata). Pullulano i riferimenti alle musiche di Francesco Guccini, Alan Sorrenti, Sabrina Salerno, così come è evidente il rimando a Dylan Dog e alla rivista Splatter.

“Mio fratello, mia sorella” e gli equilibri del racconto

Parlare di malattia mentale, in Italia, si può. Scritture delicate e brillanti sull’argomento ce ne sono state e se ne faranno. Anche il film di Roberto Capucci tenta di affrontare una scienza complessa e difficile, per molti aspetti considerata ancora un tabù: perciò, portare sullo schermo tutte le quelle forme fragili della malattia mentale significa saper bilanciare attentamente ogni parte della narrazione per non rischiare di cadere nel ridicolo o nell’eccessivo buonismo. La scrittura viene salvata dalle buone prove attoriali di Preziosi, Pandolfi e Cavallo, che non fanno degenerare il racconto.

“Quo vadis, Aida?” e il moto perpetuo della tragedia

Jasmila Zbanić circoscrive la tragedia del massacro subito da molti, dal suo popolo, centrando il proprio sguardo su Aida che nel film è tre cose, madre, moglie e traduttrice ufficiale del battaglione olandese delle Nazioni Unite. Aida è una privilegiata, è già al sicuro, “è nella lista”, le dicono. Eppure Aida, man mano che il pericolo diventa sempre più imminente, si vede costretta a prendere decisioni rapide, talvolta anche folli, per salvare la sua famiglia che si trova da qualche parte là fuori. In questo senso il dove vai del titolo Quo vadisAida? suona più come un “cosa fai?”, “che intenzioni hai?”. 

“La Signora delle Camelie” al Cinema Ritrovato 2021

Quando si parla di La Signora delle Camelie (Camille) di Ray C. Smallwood si fa una storia della scenografia. Rielaborazione filmica del 1921 dell’omonimo romanzo di Alexandre Dumas Fils, La Signora delle Camelie sfrutta tutto il potenziale del set design di interni. Merito di Natacha Rambova, designer statunitense il cui interesse per la scenografia nasce quasi accidentalmente in Russia. In seguito a proficue collaborazioni con Cecil B. DeMille e Mitchell Leisen, Rambova incontra l’attrice Alla Nazimova e inizia a disegnare e progettare costumi, arredi e scenografie per i film della sua casa di produzione, la Nazimova Productions.

“La caduta della casa Usher” al Cinema Ritrovato 2021

Dice Jean Epstein: “In preparazione di un film di Poe, l’obiettivo primario è quello di mettere insieme (non senza difficoltà) una tecnica immensa e singolare. Avendo raggiunto questo, e con le immagini a disposizione per dare senso, si può vedere che, così come per Poe, oggi la tecnica può giacere quasi completamente tra le immagini”. L’opera cardine di Epstein, La caduta della casa Usher del 1928, ispirata all’omonimo racconto dell’orrore di Edgar Allan Poe, è un’esperienza sensoriale totalizzante. Chi scrive ha avuto la fortuna di fruire il film senza l'”aiuto” e il sostegno di un accompagnamento musicale registrato o dal vivo. Una colonna sonora era stata effettivamente pensata da Epstein e in seguito divenuta realtà grazie al lavoro di montaggio compiuto dalla sorella Marie poco dopo la morte del regista.

“The Loves of Carmen” al Cinema Ritrovato 2021

Nel tristemente famoso grande incendio datato 9 luglio 1937 del magazzino di pellicole Fox a Little Ferry, New Jersey, 40.000 rulli di negativi e positivi vanno persi per sempre. Tra questi vi è The Loves of Carmen del 1927, diretto da Raoul Walsh con Dolores Del Río, parte del trittico delle divine messicane insieme a María Félix e Silvia Pinal. Per nostra fortuna, ci è giunta l’unica copia nitrato, mancante di alcune scene, reperita dal Národní Filmovy Archiv di Praga negli anni Settanta. Precursore muto dell’omonimo sonoro del 1948 con Rita Hayworth, The Loves of Carmen è solo una delle tante trasposizioni cinematografiche delle vicende della gitana spagnola, tratte dalla novella Carmen (1845) di Prosper Mérimée divenuta poi particolarmente popolare grazie all’opera di Georges Bizet.

Le piccole gemme di Winsor McCay

Ci sono tre piccole gemme nascoste nel grande scrigno del cinema muto d’animazione e lo dobbiamo al fumettista e illustratore Winsor McCay. Il papà di Little Nemo, serie a fumetti nata nel 1905 che illustra le mirabolanti avventure nel mondo dei sogni di Nemo, un bambino di cinque anni, si dà all’animazione traendo spunto da un altro suo lavoro a strisce e balloon pubblicato dal 1904 al 1913 intitolato Dream of The Rarebit Fiend. Il titolo è difficilmente traducibile in italiano (si azzarda con un “Sogni di un divoratore di crostini”): il Welsh Rarebit è una leccornia di origine gallese, una specie di crostino inzuppato nel formaggio fuso che crea una sorta di dipendenza e porta all’indigestione, mentre fiend significa “demone”, quindi “incubo”.

“Belphégor” al Cinema Ritrovato 2021

Il celeberrimo fantasma del Louvre spaventò davvero il pubblico (e come dar loro torto) di fine anni Venti e lo fece appassionare altrettanto, tanto che alla fine di ogni proiezione (“Belfagor vi aspetta settimana prossima per il terzo episodio!” recitava l’ultima didascalia in chiusura) molti spettatori si rivolgevano agli attori presenti in sala, supplicandoli di rivelare in anticipo chi si nascondesse sotto la spaventosa maschera dell’antagonista mascherato. Non era ancora tempo dei media digitali, d’altronde, non vi era pericolo di spoiler sui social media e i cliffhanger alla fine di ogni episodio facevano il loro dovere, caricando di una gran bella dose di suspense la lunga pausa settimanale tra un film e l’altro.

“Miss Lulu Bett” al Cinema Ritrovato 2021

Il tutto viene diretto da William C. deMille, fratello maggiore del ben più famoso Cecil, formatosi come drammaturgo e salito alla ribalta di Hollywood nel 1914 con The Only Son. Completamente diverso (e forse per questo oscurato) dal fratello che predilige la scrittura di film sontuosi e spettacolari, deMille Sr. scrive film che possono trasmettere al pubblico determinati valori morali. In Miss Lulu Bett, deMille viene affiancato da Clara Beranger, scrittrice e sceneggiatrice con cui stringe un sodalizio professionale e di vita, e dirige per la quarta volta Lois Wilson, a cavallo di un periodo fondamentale per i movimenti del suffragio femminile, particolarmente attivi nel corso dei primi anni Venti, nel ruolo di una pioniera della ribellione femminile verso obblighi sociali ingiusti e tossici.

“Séraphin ou les Jambes Nues” al Cinema Ritrovato 2021

Prodotto da Gaumont e lungo 34 minuti, Séraphin ou les Jambes Nues è il più rocambolesco, pazzo ed esagitato “episodio” della serie che mette buon umore. Biscot/Séraphin è l’impeccabile e compìto direttore di una compagnia di assicurazioni che, poco prima di iniziare una giornata di lavoro qualunque e dopo aver congedato la consorte (Lise Jaux) un po’dura d’orecchi, si ritrova accidentalmente senza pantaloni. Pur di riottenere il prezioso e necessario capo d’abbigliamento, Séraphin si imbatte in continui giochi di equivoci, scambi di persona e gag slapstick del tutto conformi a un certo tipo di cinema comico più commerciale (non a caso Biscot viene scoperto anni prima da Jacques Feyder mentre esegue sul palco una perfetta imitazione di Chaplin), senza però tralasciare quell’aspetto “teatrale”, da vaudeville, che ben si bilancia tra il malizioso e il leggero.

Storia dei primi archivisti. La collezione Tomijiro Komiya

Così, se a Komiya va il merito di essere uno dei primi archivisti privati della storia del cinema, è anche vero che qualcuno, decenni dopo, ha dovuto compiere un’ulteriore impresa di salvataggio di tutte quelle pellicole che, presto o tardi, si sarebbero trasformate in polvere. Ce lo insegna N. 9654, la raccolta di frammenti più significativa, curata e montata da Hiroshi Komatsu (National Film Archive of Japan) che nel 1988 apre la “scatola delle meraviglie” donatagli dal figlio di Komiya, Takashi. All’interno trova, per la maggior parte, copie lacunose di film, molte (troppe) irrecuperabili e ridotte in grave stato di decomposizione. Komatsu cerca di salvare il salvabile e taglia e cuce decine di frammenti, unendoli in quello che è diventato una specie di album di famiglia mondiale della durata di 21 minuti. Vediamo e riconosciamo volti familiari come quelli di Pina Menichelli, Diana Karenne, Gigetta Morano ed Eleuterio Rodolfi, gustiamo un repertorio di brevi scene di genere storico, onirico, idilliaco, sacro e sociale, avvicinandoci verso il finale celebrato da una rapidissima e luminosissima catena di fuochi d’artificio formata da intertitoli e didascalie.

“Being My Mom” e la costrizione poetica

L’opera prima alla regia di Jasmine Trinca, attrice a trecentosessanta gradi tra cinema e televisione, è un panorama (ritratto non sarebbe del tutto la definizione giusta) di due donne, madre e figlia, che non si servono di parole. Difatti, tralasciando qualche rumore di fondo e una sonora risata iniziale, non vi sono dialoghi o enunciati verbali. Potrebbe assomigliare quindi a un film muto? Secondo Trinca assolutamente sì, in quanto si ispira effettivamente alle opere buffe e alle produzioni di tanto tempo fa, confermando quanto la condivisione dei silenzi e delle parole non dette, sia molto spesso necessaria.

“Theodor” e il libero linguaggio del cinema

Con una naturalezza incredibile, il film non è solo il racconto su Theodor, ma con Theodor: la videocamera rudimentale che Maria gli dona per le riprese (inizialmente per gioco, poi la cosa si fa seria) è il più che spontaneo prolungamento del suo corpo frenato da un disturbo dello sviluppo psicomotorio per cui non è in grado di camminare e muoversi in libertà. E allora Theodor colma questa mancanza con una visione del suo mondo mai banale, del tutto semplice ma costruttiva, per mezzo di una camera a mano, strumento comunque impegnativo per un bambino della sua età.

Una riflessione sulle Giornate del Cinema Muto 2020

I primi dieci giorni di ottobre del 2020 vedono per le Giornate del Cinema Muto un cambiamento particolare: una dieci giorni di film, masterclass e conferenze trasmesse online. I film iniziano, la magia si compie. L’offerta delle Giornate di quest’anno non è cospicua (viene proiettato un film al giorno), ma questo naturalmente non significa che non sia all’altezza. È bello trovare nomi familiari come Cecil B. De Mille, Georg Wilhelm Pabst, Stanlio e Ollio, Mary Pickford, Colin Campbell. Ma è altrettanto interessante scoprirne di meno noti: i nostri Carlo Campogalliani e Letizia Quaranta, Dimitrios Gaziades, Holger-Madsen, Luo Mingyou, Zhu Shilin.

“Io…e l’amore”, l’ultimo capolavoro di Buster Keaton

Io…e l’amore rimane l’ultimo grande capolavoro di cinema e comicità di Buster Keaton. Il sonoro lo trae in inganno e lo allontana definitivamente dal modo di fare cinema a cui era abituato fino a pochi anni prima. Incomprensioni con la MGM lo portano a non essere più nemmeno preso in considerazione e a rimanere relegato a ruoli macchiettistici perdendo tutte quelle libertà decisionali a cui era abituato. Inizia così il declino della carriera di Keaton alternata da problemi di alcolismo e frequenti flirt con tante colleghe, declino che viene ricordato da Keaton stesso come uno dei più bui della sua vita e da cui saprà rialzarsi, adeguandosi ai nuovi prodotti e ai nuovi costumi che esige il flusso del cinema.

“Erotikon” al Cinema Ritrovato 2020

Considerato da molti la prima commedia sofisticata svedese, Erotikon di Mauritz Stiller (fautore del successo di Greta Garbo negli Stati Uniti) è il ritratto borghese del gioco di seduzione e di equivoci fra coppie che si slegano e si attorcigliano in un nodo degli inganni e dei sotterfugi compiuti apparentemente ai danni di tutti. Prodotto nel 1919, sei anni prima del capolavoro I Cavalieri di Ekebù (Gösta Berlings saga, 1924, ufficiale debutto al cinema della Garbo), il film è liberamente ispirato alla piéce teatrale A Kék róka (La volpe azzurra, 1917) del drammaturgo ungherese Ferenc Herczeg e vede già dall’inizio vincitrice assoluta la bella Irene (Tora Teje), moglie di un professore universitario ossessionato dal comportamento degli scarabei e soprattutto dalla loro vita sessuale.

“Justitia” al Cinema Ritrovato 2020

Ci sono personalità nel cinema muto che spuntano all’improvviso e poco dopo scompaiono misteriosamente nel nulla senza lasciare traccia. Non si sa praticamente niente dell’attrice appartenente al filone italiano delle forzute, risposta un po’ tardiva alla ben più nota corrente statunitense capitanata da Pearl White, dove appaiono qua e là nomi come Linda Albertini, Ethel Joyce, Gisa-Liana Doria e Piera Bouvier. Forse nobildonna veneziana, Astrea appare in qualche fotografia sulle riviste d’epoca e in quattro film, uno intitolato La Riscossa delle maschere (Leopoldo Carlucci, 1919) e tre diretti da Ferdinand Guillaume alias Polidor/Tontolini Justitia (1919), L’Ultima fiaba (1920) e I Creatori dell’impossibile (1921), dopodiché di lei non si hanno più notizie, tantomeno dati biografici. Con questi pochissimi film di cui ora siamo a conoscenza, Astrea contribuisce ad estendere l’idea di una femminilità tosta e intrepida che conserva però ancora quel tocco di garbo e classe, tutte qualità in cui le donne spettatrici nei cinema italiani dei primi anni Venti possono forse rispecchiarsi per poi sognare un po’di più.