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“La notte brava del soldato Jonathan” fra le donne di Don Siegel

Clint Eastwood, nel 1971, sui titoli di testa di La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel intonava a bassa voce The Dove di Judy Collins. A dirla tutta, la canzone poi tornava pari pari cento minuti dopo sugli altri titoli, quelli di coda, a sancire eccome quel presagio di morte, con la sorpresa di spostare l’attenzione appena una riga più sotto, sulle “belle fanciulle”, e sul consiglio che un uomo – il protagonista, la loro vittima – si preoccupava di dar loro attraverso le parole di una donna. Il titolo originale del film non per niente è The Beguiled, l’ingannato, così come del romanzo di Thomas Cullinan da cui è tratto. 

Il “Soffio al cuore” dell’ambiguo Edipo di Louis Malle

È straniante leggere oggi come si espresse cinquant’anni fa la critica a proposito di Soffio al cuore di Louis Malle. Il film fu presentato in concorso a Cannes nel 1971 e il regista fu nominato all’Oscar l’anno dopo per la migliore sceneggiatura originale, ma nel complesso l’incesto fra madre e figlio che lo risolve non destò eccessivo scalpore. La stampa europea e quella statunitense, anzi, accolsero con atteggiamento per lo più indulgente la violazione di quel tabù, ricevendola come Malle la diresse: un rito di passaggio giocoso e indolore. Ma un incesto può davvero essere rappresentato e preso così? Molto del cinema di Malle sembra risiedere proprio in queste cesure occultate, di cui forse Soffio al cuore è il vessillo.

“Il posto delle fragole”. Il vocabolario per immagini dell’essere umano

“Mi chiesi se un ricordo è qualcosa che si ha o qualcosa che si è perduto”. Difficile fare meglio di Woody Allen per dare il senso di uno dei grandi film di Ingmar Bergman, e rassicurante affidarsi al regista newyorkese e all’ultima battuta del personaggio centrale del suo Un’altra donna per parlare di Il posto delle fragole, a più di sessant’anni dalla sua realizzazione. Non è forse Marion Post la versione femminile di Isak Borg, il grande vecchio cui Bergman consegnò nelle poche settimane di stesura della sceneggiatura del film le proprie iniziali (I. B.), la sua persona e il peso dei rimpianti che già aveva a nemmeno quarant’anni?

Da trent’anni su una Thunderbird verde. L’anniversario di “Thelma & Louise”

Il finale è talmente iconico che persino I Simpson se ne sono appropriati per una loro puntata, in cui Marge in fuga in macchina con un’amica si getta sì nel Grand Canyon, ma plana a sorpresa su una colonna di altre vetture epigoni lì ammucchiate, senza sfracellarsi affatto come le Thelma e Louise originali al termine del loro volo liberatorio. Ché poi, in realtà, Ridley Scott e Callie Khouri mica ci fanno vedere la fine di quel volo: in Thelma & Louise, l’epico fermo immagine che immortala le due protagoniste in pieno salto nel vuoto è tutt’altro che fatale. È un film di riscatto femminile un film così? Pensiamo di sì, e non solo per contenuti e trama. 

“On the Rocks”. La New York Story di Sofia Coppola

Un film minore questo On the Rocks, di passaggio, che sembra aprire indeciso la seconda parte della filmografia della regista, 50 anni l’anno prossimo, e tastare il terreno di una nuova poetica. Al posto di ruvide chitarre rock raffinate melodie jazz, l’ambigua ode alla giovinezza femminile tracciata fino ad oggi sostituita da una marriage story regolare, superata a sua volta in corsa, in uno squilibrio non risolto di sceneggiatura che trova l’apice nella poco riuscita parentesi messicana, da un rapporto padre-figlia da sbrogliare. Dove andrà il cinema della Coppola è nel desiderio espresso da Laura prima di soffiare sulla candelina: lo vedremo.

 

“Undine – Un amore per sempre” fra le onde ricorsive del destino 

Undine – Un amore per sempre, del regista tedesco Christian Petzold, racconta come l’amore dovrebbe essere e come lo sogniamo, divincolandosi dalle catene, che il regista soffre come limitanti, della sua mitologia di partenza. Ma insinua anche con ironia e un’insolita nota di tensione quanto siamo tutti potenziali vittime di allucinazioni di varia natura nel momento della fine di una relazione, e quanto ci raccontiamo favole romantiche per sostenere il trauma. Il sospetto che, dopo l’apertura al tavolo della caffetteria, Undine intraprenda un viaggio fantastico nei suoi desideri, avulso dalla realtà -che paradossalmente è proprio quella del mito- è il più sottile prestigio orchestrato da Petzold nei 90 minuti del film, e non ci si stacca mai di dosso.

“Non conosci Papicha” e le altre ragazze di Algeri

La quarantaduenne regista algerina Mounia Meddour esordisce con Non conosci Papicha nel lungometraggio di finzione, dedicato eloquentemente alla memoria di un uomo, suo padre. Presentato nel 2019 nella sezione Un Certain Regard del festival di Cannes e vincitore lo scorso febbraio del premio Cesar per la migliore opera prima, il film è liberamente ispirato a vicende che l’hanno coinvolta direttamente, alle quali rivolge uno sguardo deciso, oltre che partecipe. Se il crescendo di tensione della storia si avverte scandito in modo meccanico dalle esplosioni di rabbia della sua brava protagonista, la carismatica Lyna Khoudri, il film convince nel tratteggiare il cameratismo e la solidarietà del gruppo di ragazze, di cui Nadjma è cardine sensibile e determinato.

“Roubaix, una luce nell’ombra” accesa da Dickens e dalla compassione

Nessun triangolo amoroso, nessun regista in crisi artistica, nessun’adunata familiare natalizia in una casa grande e ricca. Arnaud Desplechin, sessant’anni il prossimo ottobre, ha atteso di sentirsi maturo come uomo per dedicarsi da regista ai temi della povertà e dell’emarginazione, inediti nel suo cinema, ma diventati cronaca quotidiana nell’Europa della crisi economica, ora sulla soglia di un altro tracollo dai contorni indefinibili. La sua città, in Roubaix, una luce nell’ombra, è teatro al pari di molte altre di un crescente disagio sociale cui si accompagnano degrado e criminalità di strada, per i quali il regista sceglie un’iconografia di vicoli, tetti e usci che fanno pensare alla Limerick di Frank McCourt o alla Londra di Charles Dickens.

Chi sbanca il tavolo è l’Autore. I 25 anni di “Casinò”

Quasi tre ore di durata, trenta minuti in più di Quei bravi ragazzi e trenta in meno di The Irishman: Casinò, sedicesimo lungometraggio di Martin Scorsese uscito esattamente un quarto di secolo fa, fino al 2019 è il capitolo finale della trilogia della malavita dell’autore newyorkese, cominciata nel 1973 con Mean Streets e proseguita nel 1990 con Quei bravi ragazzi. Fino all’anno scorso, appunto, perché l’arrivo del funereo The Irishman ha sparigliato le carte della filmografia di Scorsese, sottraendo proprio a Casinò l’insegna di riflessione ultima del regista sul mondo dei gangster, ed allontanandosi in modo radicale dal consueto approccio scorsesiano alla materia. Venticinque anni dopo e al cospetto dello strappo in avanti di The Irishman, l’importanza e la bellezza di Casinò sono intatte e rinnovate.

“I Miserabili”, training days nell’Île de France

Ladj Ly, nato in Mali 42 anni fa, esordisce nel lungometraggio di finzione con I Miserabili, estensione paterna dell’omonimo corto da lui diretto nel 2017, aggiudicandosi il Premio della Giuria a Cannes 2019. Sceglie musiche ipnotiche che ricordano le partiture di Cliff Martinez per Soderbergh, un montaggio veloce che concede rare soste di quiete e una macchina da presa enfatica e volitiva. Guarda a Victor Hugo per il suo Issa-Gavroche e a Spike Lee per sé, per stile filmico e dignità nera (impossibile non pensare agli abusi dei poliziotti bianchi sulle giovani di colore di BlackKklansman quando Chris, reattivo collega di Stéphane, ferma pretestuosamente tre ragazzine nere alla fermata del bus).

“Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” e ci ricorda di prenderla con calma

Nel maggio del 2010 la giuria del festival di Cannes, presieduta da Tim Burton, conferì la Palma d’oro per il miglior film a Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti del regista thailandese Apichatpong Weerasethakul. Dieci anni dopo, orfani del festival a causa della pandemia, ci concediamo il lusso di sottoporre la pellicola ad una prima importante prova del tempo, e al confronto altrettanto significativo con le fortune successive delle altre opere che condivisero il concorso di quell’anno. Quali ricordiamo? Di certo lo struggente Poetry di Lee Chang-dong, il senile Another Year di Mike Leigh, ma anche il disperato Biutiful di Alejandro González Iñárritu. E Boonmee?

“Sola al mio matrimonio” e la lezione di Fatih Akin e dei Dardenne

Laddove La sposa turca disvelava allo spettatore e ai suoi protagonisti la nascita di un amore paradossalmente non consumato fra coniugi uniti da una mera convenienza formale, vitale lei e disperato lui proprio come Pamela e Bruno, e laddove Il matrimonio di Lorna sorprendeva per la capacità di empatia di una donna verso un fragilissimo tossicodipendente in un mondo disumanizzato, nessun aspetto di altrettanto rilievo ed interesse emerge in modo netto in Sola al mio matrimonio. Peccato, perché il ritratto femminile di Pamela offre comunque sussulti non banali: il desiderio di un uomo che le porti rispetto, la disponibilità ad un salto nel buio alla ricerca di qualcosa di meglio, la necessità di sentirsi desiderabile, la malinconia e la colpa che affiorano in fugaci sequenze oniriche.

“Alice e il sindaco” nell’epoca indecifrabile

Alice e il sindaco, scritto e diretto dal quarantacinquenne Nicolas Pariser, è un film di difficile lettura, che fotografa il passaggio di testimone politico e culturale fra due generazioni come un limbo che tale non dovrebbe essere, e che per la prima volta dal dopoguerra si manifesta nelle nostre società sotto queste spoglie, spaesando tutti. Da una parte chi vuole e deve cedere il passo ai propri figli chiede loro apertamente: “Cosa desiderate? Di cosa avete bisogno?”, e dall’altra chi stenta a farsi classe dirigente risponde: “Come posso spiegartelo?”. Per questo dialogo sotterraneo e silente su cui il film si sviluppa, Pariser sceglie un tono indecifrabile, metafora di un’epoca in stato di attesa e della natura dei suoi personaggi, sfuggente anch’essa. 

Porte aperte ad “Hammamet”

Il film appassiona non poco nel mostrare l’apertura e l’acume dell’uomo e del leader, la sua visione ampia e priva di pregiudizi, la lucidità affettiva nel rapporto con i figli e i nipoti e quella politica nel confronto con colleghi e avversari. In una parola: il suo carisma. Il problema del film di Amelio non è la mancanza delle risposte, ma che queste domande non risuonino con la solennità e la severità necessarie. Se terremoto doveva essere, non sentiamo la terra muoversi sotto i nostri piedi. Se una finestra doveva essere rotta, non ci sentiamo in pericolo per i vetri a terra.

L’inaspettata inconsistenza di “Un giorno di pioggia a New York” – Perché no

Posto e accettato che la complessità dei film degli anni ’70 e ’80 di Allen sia un lontano e bellissimo ricordo, ci troviamo ad archiviare a malincuore questo Un giorno di pioggia a New York come un episodio fra i meno interessanti degli ultimi anni del nostro autore. Forse la scelta che più compromette la riuscita del film è quella della voce over a commento, affidata non ad una entità astratta e distante come in Vicky Cristina Barcelona, ma proprio al giovane Gatsby, che per ragioni anagrafiche non può assumere quel ruolo di narratore epigrafico e risolutivo di cui si sente effettivamente la mancanza. Emblematica, in questo senso, la scena della confessione della madre di Gatsby al figlio, a metà strada fra melodramma e commedia demenziale, priva di quella necessaria sintesi di significati e toni di cui l’ultimo Allen è invece maestro.

Tutta la verità, nient’altro che la verità – Speciale “L’ufficiale e la spia”

“Chi lascia fare e s’accontenta è già un fascista”, ha scritto Pavese. “E un nazista”, aggiunge oggi Polanski. È proprio questo il concetto attorno a cui ruota L’ufficiale e la spia: in coscienza, si possono sacrificare la vita di un uomo e la verità dei fatti all’opportunità politica, al pregiudizio e alla convenienza personale? Picquart, capo dei servizi segreti di Francia, è convinto di no, e nonostante pressioni e usi lassisti consolidati e fomentati dal potere, non è disposto a venir meno a quel che dovere e morale gli impongono. “Non si possono cambiare i fatti”, dice, anche a costo di disobbedire agli ordini ed insubordinarsi, rischiare la propria stessa privilegiata posizione, certi dell’ammonimento eterno di Émile Zola: “quando non si afferma la verità, comincia la decomposizione di una società”.

“The Irishman”, old men and some guns

Come Quei bravi ragazzi e Casinò, The Irishman è una storia di mafia e di uomini di mafia, come in Quei bravi ragazzi e Casinò affidata al racconto al passato del suo protagonista, rivolto apertamente alla macchina da presa. Diversamente da Quei bravi ragazzi e Casinò, e oltre quei due precedenti straordinari film -ben oltre la vibrante confessione in aula del traditore Henry Hill in Quei bravi ragazzi (“da che mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster”), e nelle immediate vicinanze del laconico “e questo è quanto” che concludeva la riflessione di Ace Rothstein in Casinò – la storia di mafia di The Irishman è scarna, dimessa, spogliata di qualsiasi mitologia da malavita. Come scarno e dimesso, privo di esibizionismi ed entusiasmi, è il Frank Sheeran di De Niro.

“Panama Papers” e la guerriglia marxista di Soderbergh

Traffic, Erin Brockovich, Che, The Informant, Contagion e adesso Panama Papers. Se c’è un bolscevico a Hollywood, anticapitalista nel midollo, quello è Steven Soderbergh. Inafferrabile, sì, eclettico ed innovativo, ma sempre profondamente schierato contro il potere costituito che opprime i deboli per mantenersi e rigenerarsi. Se Contagion adottava i toni gravi e metaforici di un’epidemia sanitaria globale per la crisi economica del 2008 e per ritrarre lo sgomento di milioni di persone rimaste nottetempo senza casa o lavoro e la totale impreparazione di chi quello sgomento aveva generato, Panama Papers arriva otto anni dopo con i modi beffardi da cugino sarcastico dell’altro film, per completare con amarezza l’affresco.

Nostalgia “unchained” – Speciale “C’era una volta a… Hollywood” II

Tutto, in C’era una volta a… Hollywood, è forgiato su questa nostalgia. I due bellissimi personaggi di Rick Dalton e Cliff Booth, il bravo attore che non ce l’ha mai davvero fatta e la sua controfigura, amico rilassato e incoraggiante; il ricordo di un’epoca in cui le insegne delle sale cinematografiche si illuminavano romanticamente al tramonto (e Tarantino bambino ne rimaneva ammaliato, a spasso in macchina per Los Angeles con il patrigno, e cominciava a filmarle); la storia d’amore e cinema di Sharon Tate e Roman Polanski, vissuta sulle note di Mrs. Robinson. La macchina da presa di Tarantino raccoglie grata il patrimonio e gli rende omaggio proiettando sullo schermo – e sugli schermi, delle tv, drive-in e cinema che si susseguono nei 160 veloci minuti del film – le pellicole di quell’epoca e le serie tv di quegli anni. Ma reinventati o consegnati alla gloria di cui spesso non hanno mai goduto.

“Il regno” corrotto dei politici di Spagna

A un anno dall’uscita in patria ed in contemporanea con la presentazione alla Mostra del cinema di Venezia del suo ultimo lungometraggio, Madre, arriva in sala Il regno, del trentacinquenne regista spagnolo Rodrigo Sorogoyen, vincitore lo scorso febbraio dei premi Goya a regia, sceneggiatura, montaggio, musica, sonoro ed interpreti. All’appello manca solo il riconoscimento al miglior film. Che l’Academia spagnola abbia temuto l’immagine della Spagna e dei suoi politici delineata da Sorogoyen, anche autore della sceneggiatura con Isabel Peña? O che abbia in un certo senso punito il pur bravissimo regista per essersi limitato a confezionare un assillante, perfetto meccanismo d’azione senza elevarlo ad altro?