“Frankenstein Junior” tra ironia e cinefilia

 “Alive! It’s alive! It’s alive” (Vivo! È vivo! È vivo!). Rivedere la versione restaurata di Frankenstein Junior di Mel Brooks del 1974 sul grande schermo convince sempre più – caso mai lo si fosse dimenticato – che questo film è sempre vivo, un po’ come il suo immortale protagonista.  Dopo quasi 50 anni dalla sua prima uscita, stupisce non poco vedere come i meccanismi narrativi, le battute, i tempi, le musiche, la fotografia, gli attori, funzionino ancora alla perfezione.

“Scene da un matrimonio” 50 anni fa

L’11 aprile 1973 la SVT2, il secondo canale svedese, trasmette il primo episodio di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, serie che per le successive sei settimane avrebbe tenuto compagnia al pubblico televisivo. A cinquant’anni dalla sua messa in onda forse il lato più interessante è proprio interrogarsi sulla capacità di Scene da un matrimonio, pur nella sua singolarità stilistica e narrativa, di presentarsi come racconto universale sulle relazioni umane e dunque di farsi modello per tante altre narrazioni.

“Ant-Man 3” senza gambe e senza slancio

Se tutto fila da un punto di vista progettuale e nell’ottica di un disegno più ampio, resta però indubbio che il film di Peyton Reed non riesca mai a interessare, sorprendere o incuriosire più di così. Se il suo protagonista riesce ad adattare le sue dimensioni in un battibaleno passando da forme pachidermiche a microscopiche, la tensione evolutiva di Ant-Man 3 non è assolutamente all’altezza dimostrando di voler provare a concorrere nel campionato dei più grandi senza avere le gambe, lo slancio e la forma mentis necessaria per farlo.

“Holy Spider” tra noir e diritti femminili

Abbasi utilizza i modi e le convenzioni del cinema di genere per disegnare un personaggio controverso, che nel film trova un allarmante grado di simpatia ideologica tra i militanti islamici tanto da essere catapultato allo status di eroe popolare dagli estremisti religiosi. Infatti Hanaei, interpretato dall’ attore iraniano Mehdi Bajestani, non è il classico killer psicopatico alla Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti, ma è un operaio edile, un padre di famiglia, un devoto musulmano sciita e un veterano della guerra Iran-Iraq.

“Manodrome” a Berlino 2023

C’era una volta Taxi Driver. Tornato a Berlino dopo il suo esordio con Wound (2017), John Trengove dialoga con Scorsese cercando di mettere in scena la crisi del superomismo maschilista attraverso la vicenda dell’Uber driver Ralphie e della setta del Manodrome. L’idea nasce dal viaggio del regista sudafricano nella Manosphere, ovvero l’insieme di siti e comunità online che professano ideologie maschiliste e misogine. Partito dal libro Kill all Normies di Angela Nagle, Trengove ha esplorato questo universo inquietante.

“The Quiet Girl” e la timida scoperta del mondo

Ispirandosi a Foster, una storia breve di Claire Keegan pubblicata nel 2009 sul New Yorker, il regista vuole raccontare una vicenda di crescita individuale e allo stesso tempo scandagliare le lacerazioni emotive che si aprono all’interno di un nucleo familiare piegato dalla povertà e dall’autoritarismo del capo famiglia. Cáit accarezza la vita, guarda il mondo senza disincanto proiettando sulle cose il desiderio di una timida scoperta.

“She Came to Me” a Berlino 2023

La Berlinale 2023 si è aperta con l’ultimo film di Rebecca Miller, una commedia romantica sospesa fra la screwball comedy e Romeo e Giulietta, che funziona nei suoi meccanismi ma si perde cercando di abbracciare i problemi sociali e generazionali dell’America contemporanea. Temi importanti, forse non solo per il pubblico statunitense, che alla fine sembrano più che altro espedienti narrativi, immersi in uno sguardo scalato dall’alto.

“Wittgenstein” e l’immaginazione queer di Derek Jarman

Sviluppato a partire da un soggetto del filosofo e critico letterario inglese Terry Eagleton, il film è prodotto in un periodo in cui Jarman deve affrontare le drammatiche conseguenze dell’AIDS. Se il successivo Blue e il libro Chroma utilizzano il Wittgenstein delle Osservazioni sui colori per pensare la questione della percezione in seguito alla sopraggiunta cecità, il film su Wittgenstein riprende la raccolta Della certezza incentrato sul problema della conoscenza.

“Trash” di Paul Morrissey tra spazzatura e chiacchiere 

La tangibile spazzatura evocata dal titolo è tutta quell’oggettistica ripescata nei traboccanti cassonetti dei rifiuti da Holly Sandiago, che vede in essi ancora rilucente vita. Ma la spazzatura citata, in termini metaforici, sono i personaggi, rifiuti scartati dalla società che li reputa feccia, e pertanto in simbiosi con l’immondizia conservata. E Joe è un rifiuto completo, essendo un junkie che, sebbene di bell’aspetto e ben messo, soffre d’impotenza a causa dell’abuso di droghe. Desiderato dalle donne, non può soddisfare quelle costanti richieste. Un (s)oggetto rotto, quindi un rifiuto.

“Zardoz” turbinoso e psichedelico

Considerato un film trash quanto un cult, Zardoz rimane un’opera straniante e sorprendente, uno di quei casi in cui collassa la distinzione fra cinema di genere e d’autore. John Boorman sfruttò la libertà di sviluppare un soggetto personale e non convenzionale, che non venne apprezzato granché quando approdò nelle sale. L’autore inglese fu rimproverato prevalentemente per le troppe considerazioni filosofiche. Indubbiamente una sola visione non basta per entrare in sintonia con un prodotto così sfuggente, che ibrida fantascienza distopica e mystery, speculazioni sulle implicazioni sociali dell’immortalità e un caleidoscopico impianto visivo/narrativo.

“Magic Mike – The Last Dance” e i preliminari secondo Soderbergh

Per il saluto al suo ballerino dallo sguardo dolce e dalle alterne fortune, Soderbergh torna alla regia in Magic Mike – The Last Dance, con un titolo inequivocabile: il terzo è l’ultimo, e l’attesa da subito tutta per quel ballo finale in serbo. Quando non ci sono più banconote da lanciare né premi da aggiudicarsi, si torna al vero, al teatro, al vecchio continente e alla danza primordiale, di comunicazione fra individui, che incornicia il film con l’esplicito ballo di apertura e la sua inaspettata, suggestiva eco iper-romantica in chiusura.

“Marcel the Shell” e lo spirito inorganico della conchiglia

Tra diario domestico delle solitudini pandemiche e favola morale in formato ridotto, Marcel the Shell si finge un documentario sulla convivenza tra il regista, fresco di separazione dalla moglie, e due occhiute conchiglie con le scarpe, il buffo, determinato e canterino Marcel e l’assennata nonna Connie, cui presta la voce Isabella Rossellini, bruscamente separati due anni prima dalla famiglia e dalla “comunità” (è proprio il termine usato da Marcel) di appartenenza, composta da quegli esemplari che chiunque potrebbe incontrare tra la polvere sotto il proprio mobilio, o – suggerisce il film – nel cassetto dei calzini.

“The Son” e la responsabilità dello spettatore

La forza di The Son sta nel rovesciare le nostre radicatissime convinzioni sulla depressione, smascherandone i luoghi comuni. Zeller sceglie di pre-disporre il racconto filmico in tappe più canoniche rispetto all’esordio proprio per ricordarci che i disturbi mentali non possono costituire temi banali e semplificabili, mai. Confinando le azioni quasi esclusivamente in appartamento e senza virtuosismi di sorta, si può dire che il regista si distacchi ben poco dalla matrice teatrale nel tentativo di raccontare una moltitudine di complesse dinamiche intersoggettive.

“Tutta la bellezza e il dolore” dell’animo indomabile di Nan Goldin

Perché alla fine è proprio lo spirito inquieto e visionario dell’artista ad emergere con prepotenza dal lavoro di Poitras. Sovrastando la sottotrama riguardante i crimini dei produttori di oppiacei, l’istantanea sul vissuto di Nan Goldin e la sua attività professionale è materia che autonomamente riesce a farsi carico delle implicazioni morali da cui il film trae sostentamento. Lo stile grezzo, sordido e violento che contraddistingue lo sguardo della fotografa è di per sé un’autobiografia dolorosa e un grido di rivalsa sulle costrizioni. 

“Sciuscià” e la genesi del film

“Erano i giorni che sapete e ne avevo già visto abbastanza per sentirmi profondamente turbato, sconvolto; le donne che andavano in camionetta con i soldati, gli uomini e i ragazzini che si buttavano in terra per afferrare le sigarette o le caramelle. Agli adulti pensavo meno che ai bambini; e pensavo: ‘Adesso sì che i bambini ci guardano!’. Erano loro a darmi il senso, la misura della distruzione morale del paese: gli sciuscià” (Vittorio De Sica”). 

Speciale Park Chan-wook – “Old Boy” e le colpe degli uomini

Old Boy è un film crudo e disturbante in cui i personaggi, messi dinnanzi alle proprie colpe, non trovano altra catarsi che uccidere, torturare, mutilarsi o tuttalpiù cercare di dimenticare. Confrontato con gli altri due capitoli della trilogia, Old Boy risulta più intenso e meno rigoroso del precedente Mr. Vendetta, ma senza toccare le vette di divertito barocchismo stilistico del successivo Lady Vendetta.

“Great Freedom” per il diritto senza retorica

Great Freedom è contemporaneamente il ritratto di un uomo inconsapevolmente iniziatore di una resistenza silenziosa e una tenera esplorazione della sessualità maschile nella Germania postbellica. Alternandosi tra punti di vista differenti – un po’ voyeur, un po’ sociologo – e stacchi temporali, Meise e lo sceneggiatore Thomas Reider non perdono mai il controllo, bandendo la retorica e dosando accuratamente l’uso della parola diritto senza risultar predicibili.

Speciale Park Chan-wook – “JSA” tra due popoli

Mentre film come Il prigioniero coreano postulano l’impossibilità di una riunificazione per l’avversa volontà dei coreani stessi, in JSA si assiste a un timido tentativo di fratellanza fine a sé stesso che rimane soffocato nelle tenaglie di un equilibrio politico troppo fragile, in cui entrambe le parti in causa preferiscono nascondere la verità che alterare lo status quo. Tra i limiti artistici dell’opera il maggiore è non valorizzare sufficientemente il rischio che comporta l’amicizia fra soldati del sud e del nord.

“Tár” e la lezione del potere

Todd Field, che ritorna dopo 16 anni dietro la macchina da presa, lo fa con eleganza e maestria con un film stratificato che parla di potere, passando dai diritti femminili ed eguaglianza fino al mondo del lavoro e fino a che punto si è disposti a intercedere a compromessi per esso. Senza mai perdere il ritmo sembra aver acquisito anche lui la lezione del maestro Leonard Bernstein: “Giocare con il tempo e con la forma per trovare una propria voce”. 

“Bussano alla porta” e il dilemma dell’ambiguità

Con Bussano alla porta (2023), adattando un romanzo di Paul G. Tremblay, Shyamalan opera sull’immaginario biblico. È quindi un film che per tutta la sua durata lavora tanto con il simbolismo e l’allegoria, con diversi gradi di intensità: talvolta la derivazione biblica è appena suggerita, altre volte sono le immagini e le parole dei personaggi ad esplicitare che ciò che stiamo vedendo è una lettura in chiave moderna di narrazioni più antiche e radicate.

Speciale Park Chan-wook – “Decision to Leave” e l’esperienza del déjà vu

Come per il picco della montagna da cui è caduto il marito di Song Seo-rae, che ha lo stesso profilo del mucchio di sabbia abbattuto dall’alta marea nel finale, in certe inquadrature fintamente neutre Park dissemina indizi per la soluzione dell’indagine e soprattutto segnali dell’inganno amoroso che tornano nelle scene più cariche di pathos, riportando Decision to Leave ai temi fondamentali della sua filmografia: l’artificio sistematico della vita, l’illusione imprescindibile al sentimento, la necessità di non sapere e l’impossibilità di non chiedere.