La poetica del desiderio. Un bilancio del cinema di Matteo Garrone

Quella di Matteo Garrone è una carriera estremamente interessante da studiare in un’ottica di sperimentazione e di eclettismo. Nei suoi oltre vent’anni di carriera Garrone ha cambiato genere cinematografico molte volte, finendo così per essere associato non tanto ad una tipologia di racconto, quanto ad una precisa prospettiva artistica sul mondo. Garrone non ha studiato cinema; la sua formazione è nella pittura e ciò è evidente in tutti i suoi film.

“Enea” che afferma e poi nega se stesso

Castellitto, insieme ad altri come i fratelli D’Innoncenzo, sembra che stia mettendo in pratica delle prove, procedendo in modo empirico, affermando e poi negando, prima a sé stesso, poi a noi, chiedendoci qualcosa in più, di seguirlo, di andare oltre. Dovremmo capire però – lo capiremo sicuramente in futuro – se questi tentativi porteranno da qualche parte o se saranno proprio la cifra stessa di questi lavori all’insegna di un cinema digitale frammentato.

“La bête” nella giungla del digitale

Se Coma era una lettera d’amore alla figlia isolata nella pandemia, La bête è un melodramma che nella ritualizzazione scenica di una casa ritrova la possibilità di un’intrusione, di un incontro gratuito con l’altro. Ma lo ritrova soprattutto nell’incontro dello spettatore con il corpo di Léa Seydoux, nel patimento per il suo scontro corporeo con la rimediazione digitale, uno scontro che supera epoche per darsi ancora come seme del desiderio.

“Hokage” e la maturità di Tsukamoto

Giunto al suo quindicesimo lungometraggio, questo monumento della cinematografia nipponica conferma di conservare intatto il proprio spirito inquieto e l’approccio sperimentale alla base della sua sensazionale carriera registica. Ombra di fuoco, si presenta però anche come un’ulteriore prova di come Tsukamoto, in quella che potrebbe essere definita come una nuova fase di maturità, riesca ad arricchire la propria anarchica visione del cinema di elementi nuovi e sorprendenti.

“Profundo Carmesí” ibrido sanguigno di generi e umori

Ispirandosi ai terrificanti delitti perpetrati da una coppia di amanti negli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta (già alla base di The Honeymoon Killers di Leonard Kastle), Ripstein costruisce il film come un ibrido sanguigno di classici americani e generi della cinematografia messicana di metà secolo, sostenuto da un umorismo nerissimo tipicamente ispanofono: le venature da thriller notturno si adeguano alla lezione satirica di Luis García Berlanga.

“Evil Does Not Exist” tra pace e conflitto

Il cinema di Hamaguchi, quello che si manifesta nei silenzi, nelle dispersioni e nelle deviazioni, quello che trova la sua essenza nei galleggiamenti lievi, c’è tutto. Così come i suoi paradossi. Se Drive My Car, un film quasi del tutto fatto di dialoghi, si fondava attorno al primato del gesto sulla parola, in Evil Does Not Exist gli incessanti movimenti fondano un primato della stasi sul movimento, primato della conservazione sul progresso, della difesa sull’attacco, della natura sul resto.

“The Store” e la società dei consumi

La regista svedese tocca i tasti giusti mostrando come l’ossessione per la produttività trascini verso il basso le condizioni di lavoro, trasformando la vita degli operai in un inferno psicotico basato sulla competizione tra colleghi. Nonostante lo scenario inquietante Ami-Ro Skold lascia, forse ironicamente, le porte aperte ad un modello diverso e sostenibile, rappresentato dalla comune organizzata dai senzatetto. Una società che vive grazie agli scarti del supermercato e che diviene preferibile a quella civilizzata.

“Due fratelli” e i legami da recidere

Se nel suo importante esordio Montparnasse – Femminile singolare l’emergente Léonor Serraille raccontava i tentativi della protagonista Paula di costruire e difendere una propria autonomia e indipendenza tra affetti e lavoro, nel secondo lungometraggio la regista parte da uno spunto simile per intraprendere invece altri percorsi. Due fratelli affronta così dinamiche della marginalità sociale da una prospettiva che apre a considerazioni su cui il cinema ha il compito di riflettere e far riflettere in un contesto complesso come quello contemporaneo.

“Killer” e la tensione fincheriana tra controllo e imprevedibilità

David Fincher ce lo dice da sempre: la tensione tra metodicità e improvvisazione si fa metafora della vita del set. È la grande contraddizione produttiva della messa in scena fincheriana: un regista ossessionato dal controllo su ogni componente audio-visiva dei suoi film che non può sopportare, e allo stesso tempo vede come inevitabile, l’emergere dell’imprevedibile, dovendo quindi immediatamente intervenire, tornare al proprio codice.

“Adagio” nella città apocalittica

Inscenato con la consueta devozione verso un rigore formale che non estetizza la criminalità, ma ne esalta gli aspetti più brutali, Adagio si afferma come un’opera spietata, uno scorcio apocalittico, crudele e doloroso (ben più greve di quello raffigurato un anno fa da Virzì nel già ben poco consolatorio Siccità) per il quale le uniche soluzioni contemplate sono il martirio o la fuga.  Ma se il mondo circostante non concede vie di scampo, la via per la pace va trovata nella riscoperta del valore della vita, anche quando non si tratta della propria. 

“Ohikkoshi” e il nostro posto nel mondo

Venezia Classici riporta alla luce la storia di una figlia unica che tenta di aprirsi la sua strada, che incontra l’ignoto cercando la forza indispensabile per continuare ad affrontarlo.  Ohikkoshi è una meditazione straordinariamente suggestiva sull’infanzia. Incentrato sulla crescita emotiva di una ragazza sensibile, si rivela un racconto peculiare sia per il valore di profondo affresco su un’età inquieta che per l’adozione d’una formula narrativa deliberatamente surreale che le conferisce l’andamento di un manifesto liberatorio

“Aggro Drift” come conflitto estetico oltre il cinema

Aggro Dr1ft è un lavoro di linguaggio e di media, di visualizzazione digitale. Un luogo di conflitto estetico. Post-cinema o meno è indispensabile andarci, seguirlo e vederlo. Aggro Dr1ft non è neanche un film, ma un’immersione psichedelica in una Miami crepuscolare abitata da assassini. Volendo evidenziare un discorso sui dispositivi, sui supporti visivi e sulla cultura visuale contemporanea, Korine prova ad andare oltre il cinema passando all’immaginario videoludico.

“La caza” e il conflitto senza uniformi

Per l’asprezza satirica, per la violenza, prima suggerita come se fosse una finezza da dosare con attenzione, poi brutale, il film suscitò dibattiti e sollevò polemiche. Tanto da indurre il regista Manuel Gutiérrez Aragón a dichiarare con forza che esista un cinema spagnolo prima dell’uscita del film e un altro dopo. Tuttavia, oltre ogni classificazione, viste le pochissime risorse impiegate per girarlo, è la storia di un confronto. In cui si mescolano anarchicamente realtà e fantasia, corpi e fantasmi, azione e immobilità, in cui si combatte un conflitto senza uniformi.

“Ferrari” tra tormento e dinamismo

L’Enzo Ferrari ritratto da Michael Mann è un uomo tormentato dal ricordo degli amici persi in pista anni addietro e soffocato dall’impotenza per non essere riuscito a strappare il figlio Dino ad una morte prematura. Con questo opprimente patrimonio emotivo, in cui gli affetti perduti si accompagnano all’angoscia per un’eredità mancata, Ferrari si scontra con un mondo che non sembra più appartenergli, tra difficoltà economiche che rischiano di vedere il marchio cadere in mani straniere, alla concorrenza entro i confini nazionali che giunge a minacciarne la leadership.

“Passages” dentro felicità e squilibri

Per quanto improbabili e a tratti insopportabili siano il benessere e la disinvoltura ostentati dai protagonisti rispetto al costo della vita a Parigi, è davvero difficile rimanere indifferenti alla loro vitalità, che è poi la stessa del ritmo irresoluto e degli squilibri imperterriti esibiti da Sachs in termini registici. La felicità di ciascuno di loro significa l’infelicità di uno degli altri tre, e i “passaggi” sono necessari ad assicurare al triangolo una forma di precaria stabilità, fino al punto di rottura finale.

“Lo spaventapasseri” cinquant’anni dopo

Basterebbero i primi sette minuti del film (girati senza stacchi di montaggio a camera praticamente ferma) a esprimere la grande potenza di quest’opera e alla sua importanza nel cinema coevo: una figura in lontananza scende da un pendio, il contrasto è ad impatto fortissimo, tra lo sfondo del cielo (buio per l’approssimarsi di un temporale: attenzione non solo meteorologico, ma anche narrativo e quindi metaforicamente centrale) e una piccola collina, piena di grano di un giallo accecante, dove al centro si staglia un albero senza foglie.

Potere e follia. Ancora su “Rossosperanza”

In un mondo tendente all’uguaglianza asettica e pronto ad abbracciare il nuovo millennio, la speranza di Annarita Zambrano è forse quella di far vincere per una volta quello che abbiamo rimosso o confinato in edifici facilmente identificabili con Villa Bianca, luoghi in cui si è cercato di perseguire l’eliminazione riscontrata da Basaglia. Soffocare conduce alla morte, è risaputo, ma che bello sapere che sullo schermo si può allentare la morsa violenta e lasciare che i corpi degli oppressi reagiscano non soltanto narrativamente ma anche con il sangue.

“Rossosperanza” e la borghesia viziata

Attraverso uno spaccato anni Novanta un po’ grottesco e un po’ idillico, Rossosperanza accompagna lo spettatore in un mondo dalle tinte gotiche e glam, nel quale lo sfarzo e l’eccesso diventano l’emblema di quel berlusconismo che ha delineato l’immagine nazionale. Gli elementi della mondanità sono tutti presenti: i club, le droghe sintetiche, la prostituzione e una borghesia romana bacchettona e ipocrita.

“Oppenheimer” speciale II – La filosofia di Nolan

Nolan fuoriesce dall’illusione (ripensiamo a The Prestige o a Interstellar) e penetra un immaginario più denso, cupo, vero, abitato da fantasmi atomici e vite immerse nell’ambiguità etica; non più immaginazione foriera di duplicazioni e moltiplicazioni illusionistiche e pseudoscientifiche. Nulla di ciò che vediamo è falsificato o falsificabile, proprio come un postulato fisico, e tutto ciò che riprende la macchina da presa si esaurisce nell’impossibilità di una nuova ri-trasformazione umanistica post-atomica.

“Oppenheimer” speciale I – Classico e contemporaneo

Oppenheimer è un film classico ma al tempo stesso assai contemporaneo, un lavoro di ricerca quasi filologica su un immaginario che ha contribuito a rendere grande un cinema e una nazione, un racconto su un uomo che ha cambiato le sorti del pianeta. In tal senso è probabilmente il lavoro più autobiografico di Christopher Nolan, un film in cui regista, protagonista e pellicola in sé si relazionano alla stessa maniera e si sovrappongono sull’orlo di una voragine profondissima.

Senza un altrove. Una lettura trasversale dell’ultimo cinema d’animazione Disney/Pixar

A volte l’altrove è circoscritto prima e dopo il film (Elemental), a volte è proprio un tema, un orizzonte ambito ma impossibile da raggiungere (Lightyear, Strange World), a volte non è proprio contemplato (Encanto, Red). L’avventura è limitata da ostacoli tecnici (l’astronave di Lightyear), geologici (le montagne di Strange World), sociali (i confini di sicurezza di Encanto). Non si può andare oltre. Cartografia del recente cinema d’animazione.