“Teorema” e l’errore borghese

Alla 79ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la sezione Venezia Classici ha presentato il restauro del film Teorema, realizzato dalla Cineteca di Bologna e Mondo TV Group, in collaborazione con Cinema Communications Services, presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata.  Teorema è tornato alla Mostra di Venezia, dopo la prima alla tumultuosa edizione del 1968, occasione in cui Laura Betti venne premiata con la Coppa Volpi per la Miglior interpretazione femminile. Premiato in un primo momento dall’OCIC – Organisation Catholique Internationale du Cinéma (che, qualche mese dopo, sconfessò il riconoscimento), poi attaccato da «L’Osservatore Romano», processato (con iniziale condanna dell’autore e del produttore), infine assolto, Teorema rivive ora grazie al restauro e torna, come tutta l’opera di Pasolini, a interrogare le nostre coscienze contemporanee.

Il bilancio finale di Venezia 79

Mai come in questa 79esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, un fil rouge sgargiante ha attraversato ogni film in concorso (e non solo). Perché è indubbio, nel bene e nel male, che si sia riscontrata una coerenza di temi mai così salda come in questa selezione, qualcosa che lega un film all’altro in un gioco di incastri sorprendente, a tratti inquietante. E non si tratta di una sensazione suggerita, forzata, a tratti percettibile: è qualcosa di incredibilmente nitido che fa di un film la controparte dell’altro, in un botta e risposta ideale.

“All The Beauty And The Bloodshed” Leone d’Oro a sorpresa

Perché alla fine è proprio lo spirito inquieto e visionario dell’artista ad emergere con prepotenza dal lavoro di Poitras. Sovrastando la sottotrama riguardante i crimini dei produttori di oppiacei, l’istantanea sul vissuto di Nan Goldin e la sua attività professionale è materia che autonomamente riesce a farsi carico delle implicazioni morali da cui il film trae sostentamento. Lo stile grezzo, sordido e violento che contraddistingue lo sguardo della fotografa è di per sé un’autobiografia dolorosa e un grido di rivalsa sulle costrizioni. Il suo animo indomabile, riversato ed incastonato nei numerosi ritratti, è il vero epicentro sovversivo del saggio documentaristico.

“Videodrome” inesauribile e contemporaneo

Tanto è stato scritto su questo film, scomposto e analizzato fin nelle sue componenti minime. Eppure, ad ogni nuova visione colpisce sempre un dettaglio, un’intenzione autoriale, una direzione interpretativa nuova. Per questo Videodrome è un film inesauribile, in continua reincarnazione, che si adatta al contesto ricettivo di qualunque contemporaneità. È la rappresentazione di un disagio trasnumano, di una tensione esistenziale/tecnologico non ancora dispiegata.

“My Emptiness and I” al Gender Bender 2022

Nel corso del film, la protagonista condivide il suo dubbio principale, ovvero se sia necessario che una persona debba arrivare a modificare il proprio corpo per trovare una comunità di riferimento e per essere socialmente accettabile, con colleghe, amici, gruppi queer, medici, famigliari lontani e artisti. Tutti la sostengono, ma, in qualche modo, le chiedono di fare una scelta definitiva che Raphi sente dover invece essere l’esito di un percorso vissuto da lei in prima persona. Fin dal titolo, diviso tra vuoto e affermazione dell’io, tutto il film verte sulla percezione di scissione e di polarità binarie che Raphi avverte come un’imposizione e vuole invece ridiscutere.

“The Son” e la responsabilità dello spettatore

La forza di The Son sta proprio in questo: rovesciare le nostre radicatissime convinzioni sulla depressione, smascherandone i luoghi comuni. Zeller sceglie di pre-disporre il racconto filmico in tappe più canoniche rispetto all’esordio proprio per ricordarci che i disturbi mentali non possono costituire temi banali e semplificabili, mai. Confinando le azioni quasi esclusivamente in appartamento e senza virtuosismi di sorta, si può dire che il regista si distacchi ben poco dalla matrice teatrale nel tentativo di raccontare una moltitudine di complesse dinamiche intersoggettive.

Argento Queer. “Cut” al Gender Bender 2022

L’uso di Dario Argento in un contesto queer è sicuramente il tratto più affascinante del film e di sicuro interesse per cinefili, in quanto amplifica e sovverte in modo ironico alcuni personaggi e situazioni presenti nelle narrazioni del maestro del giallo italiano e di altri registi del genere. Fin dagli esordi negli anni 70, Argento ha inserito nei suoi film personaggi omosessuali, maschili e femminili. La critica si è spesso divisa in letture contrastanti: conferma degli stereotipi di genere della cultura dominante o, al contrario, tentativo di rappresentare quello che l’industria culturale voleva censurare?

“L’immensità” troppo vulnerabile dell’autobiografia

Per quanto poetiche, le immagini di grembiuli lanciati fuori dalle finestre, di pezzi di bambola fluttuanti in una piscinetta gonfiabile o ancora le scenette che riprendono gli spettacoli di varietà degli anni ‘70 non sono affatto originali ne riescono a produrre quel coinvolgimento emotivo per cui sono state ideate. Il risultato è un film di buoni sentimenti, che si gode ma poi si dimentica, forse anche all’ombra di opere autobiografiche italiane più celebri che ancora persistono nell’immaginario e nella discussione cinematografica (come È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino).

“Il signore delle formiche” tra collettivo e privato

Il film è costruito attorno a due nuclei. Due metà ben definite. Due luoghi: l’Emilia-Romagna e Roma. Due protagonisti: Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) e il giornalista Ennio (Elio Germano). Due storie che, per tornare al discorso di prima, mettono in campo una particolare commistione tra discorso collettivo e privato. Di fatto Il signore delle formiche è un film che vuole essere monito sociale e punto di riferimento morale, ma allo stesso tempo si costruisce tutto sulla storia di emarginati che si auto-escludono, serviti da una regia che li circoscrive in sfondi opacizzati chiusi sui loro volti e totalmente disinteressata alle folle.

“The Eternal Daughter” piccolo e maniacale

La storia è quella di una regista e del suo rapporto con la madre. Le due passano qualche giorno in un hotel che un tempo era la magione di famiglia – alla ricerca di ricordi per una storia che sembra coinvolgere emotivamente più la figlia che altri – la donna è tormentata dalla volontà di appagare la madre e da un misterioso clima lugubre che trasuda dalle pareti di uno scricchiolante albergo vuoto. Il tormento, da subito, si concretizza in misteriosi rumori notturni. La donna non dorme, cerca le origini dei suoni e compie una serie di movimenti rituali alla ricerca di qualcos’altro: un ricordo? un mistero? un volto?

“The Kiev Trial” e l’ambivalenza dell’immagine storica

Il film è un collage che riassume i punti salienti di questo processo, nel quale il regista ha scelto cosa mostrare e cosa elidere per permettere a noi spettatori di entrare nella cupa atmosfera del tribunale e sentire le voci di chi ha compiuto e chi ha subito queste ingiustizie. The Kiev Trial è costruito in crescendo, per cui inizialmente si sofferma sui volti, sui nomi, sul lungo lavoro dei traduttori in simultanea che hanno permesso di condurre il processo in russo e tedesco, e poi progressivamente si cede il passo alle testimonianze, che diventano sempre più personali e agghiaccianti, passando da conte sommarie a racconti in prima persona di vittime scampate alle stragi di massa.

“Don’t Worry Darling” e gli inganni della simmetria

Don’t Worry Darling è un film che conferma il gusto estetico di Wilde, ma che, a fronte di un coefficiente di difficoltà decisamente più elevato, tradisce uno stile ancora acerbo ed incapace di gestire al meglio la complessità di un soggetto che pecca di pretenziosità. L’aspirazione sarebbe quella di costruire un film sufficientemente accessibile al grande pubblico ma ricoperto di una patina sofisticata, declinata secondo i criteri di un cinema di denuncia sociale adeguato agli urgenti temi dell’uguaglianza di genere e dell’autodeterminazione femminile. Aspetti delicati quanto travisabili, ai quali il film pare approcciarsi con un eccesso di timore reverenziale.

“Master Gardener” ovvero Schrader l’impeccabile

È un cinema che procede per sottrazione, dove ogni elemento spicca autonomamente, sia che si tratti della rilassante voce narrante del protagonista o del fragore di ossa che si spezzano. Che la scrittura di Schrader sia impeccabile è oramai un fatto assodato, ma in Master Gardener, ancor più che in Il collezionista di carte, riesce a fondere ambientazione e personaggi ai temi portanti della narrazione. Tossicodipendenza e botanica, svastiche e boccioli in fiore si amalgamano alla perfezione in uno dei più interessanti mondi diegetici degli ultimi anni.

“The Whale” tra solitudini e moltitudini

The Whale ci racconta così tante emozioni, talmente prossime alle nostre vite, che qualcuno potrebbe pensare si tratti di un tranello, di un’abile manipolazione che indirizzi agilmente questo film verso un premio, un riconoscimento. Ma non c’è niente di facile e immediato in The Whale, un gioiello di scrittura piccolo come gli spazi che presenta e grande come il protagonista, anzi, i personaggi tutti. Una storia complessa fatta di solitudini e moltitudini, costrette a far stare le loro strabordanti emozioni in confini autoinflitti e pronte a esplodere in una tensione oscura che nasconde una speranza irriducibile.

La luciferina demiurgia di Lars von Trier

Riesumare Riget per Lars von Trier significa rispolverare il suo lato più ferocemente satirico, aggiornandone i bersagli e attingendo al contemporaneo gli oggetti dello scherno, ma è anche perseverare nel percorso di raffigurazione dell’angoscia, concedendo forma alla sua mutevolezza e a tutta la sua assurda alterità. È ancora lo straniamento il materiale grezzo da cui Riget viene forgiato, per replicare anche a distanza di anni la malefica intellegibilità di un presente sempiterno che può acquistare senso solamente se assorbito dall’arte del racconto. Ed ecco dunque il ritorno della centralità della figura dell’autore, sorgente da cui tutto sgorga e strumento ultimo tramite cui tutto deve finire.

“Pearl” come viaggio umorale nell’horror piscologico

Nell’attuale revival retró dell’horror, Ti West si distingue per la seconda volta nello stesso anno, e con maggiore incisività, per un film che sa essere al contempo profondo e leggero, estremamente serio e divertente, misurato ed eccessivo. In un’edizione che fa della paura della morte, dell’espiazione e del senso di colpa i temi caldi della selezione, Pearl è la nota dissonante e scanzonata di Venezia 79, capace di omaggiare e al contempo capovolgere e sublimare i ruoli femminili nella storia dell’horror psicologico. 

“Padre Pio” emotivo più che biografico

Scritto a quattro mani con il bravissimo Maurizio Braucci, Padre Pio è una storia che procede su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai se non su un territorio storico-geografico comune: da un lato la passione del santo e dall’altra la cronistoria del massacro di San Giovanni Rotondo del 14 ottobre 1920. Di fatto, il film è un alternarsi tra lo spaccato politico-sociale del luogo — la vita contadina, le tensioni tra padroni e braccianti, la feroce repressione dei carabinieri dopo la vittoria dei socialisti alle elezioni — e i pensieri e i conflitti spirituali di Padre Pio, qui in un ritratto emotivo, più che biografico. 

“Bardo” e il cinema come deflagrazione

Nonostante il risultato appaia più limpido nelle intenzioni che non in quanto effettivamente si veda su schermo, la sensazione di affaticamento con cui si arriva al termine di questi 174 minuti è la naturale conseguenza di un viaggio tutt’altro che privo di intensità. Nel raccontare sé stesso Iñárritu rinuncia alla ricostruzione filologica di eventi personali, mirando soprattutto a ribadire la sua idea di cinema, secondo la quale le emozioni sono, ancor prima che legate alla storia, intimamente connesse alla deflagrazione di immagini e suoni. Il modo migliore per parlare di sé è dunque realizzare un film che è la summa della propria poetica.

 

Cara Sophia… sei una canaglia! Lo scambio epistolare Blasetti/Loren

Di Sophia, Blasetti ne ha afferrato immediatamente le potenzialità; dietro la bellezza prosperosa, una donna con tutte le qualità per diventare un’attrice di prim’ordine; intelligente e soprattutto disciplinata, con un cuore generoso e disposta a lavorare sodo. Blasetti ne è completamente soggiogato. Lo scambio epistolare tra il regista e Sophia Loren nel corso del 1957, all’indomani del successo di Peccato che sia una canaglia (1955) e di La fortuna di essere donna (1956), mette in scena un Blasetti inedito, geloso, ferito nell’amor proprio dall’aver scoperto che in un’intervista, lei ha dichiarato che tra le sue interpretazioni preferite c’è la pizzaiola di L’oro di Napoli (1954).

La trilogia della spada di Kenji Misumi

La sintesi poetica fra azione e personaggio rappresenta uno degli elementi più distintivi dello stile di Misumi, che emerge dalla trilogia in tutta la sua limpida grandiosità. Lavorando dentro i confini del prodotto industriale, il regista giapponese aveva trovato un modo tutto suo di conciliare intrattenimento e spessore drammatico, creando una serie di film che cristallizzano perfettamente il dinamismo e la precisione del suo cinema. Già a questo punto, molto prima di raggiungere il pubblico occidentale, quella di Misumi era l’opera di un maestro.

Elegia del rock’n’roll. “The Last Waltz” e il cinema della performance

Le performance di The Band sono curate al dettaglio, inquadratura per inquadratura, come se fossero i numeri di un musical – lo si vede soprattutto con la splendida The Weight, registrata dopo il concerto dentro uno studio cinematografico, in una dimensione sospesa e a sé stante. La musica, intanto, si incrocia con le interviste, durante le quali i membri del gruppo raccontano della sua fondazione, dei tour, dei sedici anni in cui hanno suonato insieme. Un approccio studiatissimo, quello di Scorsese, che non rompe la magia dell’evento ma vi aggiunge spessore.