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“Profundo Carmesí” ibrido sanguigno di generi e umori

Ispirandosi ai terrificanti delitti perpetrati da una coppia di amanti negli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta (già alla base di The Honeymoon Killers di Leonard Kastle), Ripstein costruisce il film come un ibrido sanguigno di classici americani e generi della cinematografia messicana di metà secolo, sostenuto da un umorismo nerissimo tipicamente ispanofono: le venature da thriller notturno si adeguano alla lezione satirica di Luis García Berlanga.

“Passages” dentro felicità e squilibri

Per quanto improbabili e a tratti insopportabili siano il benessere e la disinvoltura ostentati dai protagonisti rispetto al costo della vita a Parigi, è davvero difficile rimanere indifferenti alla loro vitalità, che è poi la stessa del ritmo irresoluto e degli squilibri imperterriti esibiti da Sachs in termini registici. La felicità di ciascuno di loro significa l’infelicità di uno degli altri tre, e i “passaggi” sono necessari ad assicurare al triangolo una forma di precaria stabilità, fino al punto di rottura finale.

“La donna della spiaggia” e il cinema onirico di Renoir

Se è vero che ogni cosa trova una sua sistemazione, nella gioia o nel dolore, attraverso lo sguardo di Renoir, lo stesso non si può dire della travagliata storia produttiva del film, uscito nel ’47: riscritto a più riprese e rimontato due volte per volontà della RKO, fu comunque un insuccesso e costò a Renoir la carriera hollywoodiana. Restaurato qualche anno fa a partire da un duplicato di sicurezza del negativo 35mm, lo si ammira oggi come un noir decisamente atipico, perché imbevuto di un’atmosfera sognante e di un torbido mistero legato alle implicazioni inconsce piuttosto che all’intrigo adulterino.

“L’arpa birmana” che riconosce l’umano in ogni cosa

In quanto testimone isolato degli effetti disumani del conflitto Mizushima si sente chiamato al lavoro definitivo della pietà: seppellire i morti, i morti sconosciuti e dimenticati che affollano le valli e le coste della Birmania, i morti che non appartengono più a nessuno. Così impara a riconoscere l’umano in ogni cosa, nel volto di un bambino cui insegnare a suonare il suo strumento, nelle ossa incrostate di fango al bordo di un fiume, nel pappagallo che gli sta sempre appollaiato sulla spalla, in un rubino trovato per caso nello scavare una tomba.

“Quinto non ammazzare!” e il dilemma del colpevole

Con la complicità del sapiente Paul Ivano alla fotografia Siodmak, esule tedesco a Hollywood dallo scoppio della seconda guerra mondiale, congegna un meccanismo di suspense quasi insostenibile a partire da pochi, sceltissimi elementi (valorizzati dal restauro del negativo originale in nitrato): il buio concesso dal mobilio kitsch delle villette a schiera, la nebbia apparentemente innocua dei quartieri residenziali della Londra edwardiana, l’indecisione tra chi sia davvero vittima e chi davvero colpevole.

Una diade luminosa nel cinema di Kinugasa

Sia in Kurutta Ichipei che in Jujiro c’è un tentativo fallito di salvazione – al marito sta la sorella, come alla moglie sta il fratello – una fuga impossibile verso la luce, prima che sia definitivamente spenta. Solo apparentemente più lineare del predecessore, Jujiro stravolge in verità ogni convenzione dell’epoca: quanta struggente meraviglia nelle gocce di pioggia rappresa tra i capelli dei due fratelli che si sostengono a vicenda, che atroce incanto nelle immagini quasi astratte di polveri, fiamme e alberi che passano negli occhi di Rikiya quando si accorge di aver vagheggiato invano la felicità.

“Shirasagi” e le geometrie dell’amore in Teinosuke Kinugasa

Se nel sontuoso e marziale La porta dell’inferno aveva usato i carrelli laterali per imitare lo srotolarsi di un emakimono, cinque anni dopo Kinugasa riesce magistralmente a portare in Shirasagi (L’airone bianco) lo sfumato della pittura nipponica e un certo lirismo naturalistico di contorno, ottenuto attraverso la punteggiatura vegetale dei cortili e le ruote dei risciò parcheggiati che ritmano i margini delle inquadrature notturne. Bandito ogni movimento di macchina, la sintassi visiva è affidata completamente alla profondità di campo, che in questo film raggiunge livelli di significato inauditi.

“Paura e desiderio” del cinema di Kubrick

Incarnando le passioni primarie negli sguardi allucinati e nei gesti violenti dei personaggi, Paura e desiderio si presenta come un film spinoziano, non meno che shakespeariano, dove la ragione abita la natura silente e fintamente immobile (il sottobosco tormentato dalle mani di Corby e del soldato semplice Sidney, il fiume dove “scorre” il monologo interiore del sergente Mac) e agli uomini non resta che abbandonarsi agli istinti omicidi e alla sopraffazione sessuale, ma anche ai deliri ispirati al Prospero della Tempesta, alla speranza di un incantesimo di salvezza.

“Animal House” e l’anarchia incoronata

Rivendendolo oggi, di Animal House si può dire che è a tutti gli effetti una pietra miliare, perché, oltre ad aver avuto troppe imitazioni e nessun degno erede, segna il momento più insubordinato e iconoclasta di una stagione della comicità statunitense che, frullando insieme i fratelli Marx e John Waters, poteva permettersi ancora di intendere “demenziale” come sinonimo di “politico”. Animal House è una fragorosa e pantagruelica satira dell’America wasp nonché farsa distruttiva delle aspirazioni liberal del paese più imperialista del mondo.

“Cane che abbaia non morde” e il cinema del sottosuolo

Riconosciamo l’insolubilità di registri (satira sociale, melodramma domestico, orrore suburbano) che Bong eredita dalla contradditoria storia dell’industria cinematografica coreana. Il regista di Taegu esplora con curiosità etologica il sottosuolo strutturale e morale del proprio paese (forse di ogni paese), brulicante di affaristi, pusillanimi e idealisti delusi, con toni tanto violenti e onirici quanto parodici presi in prestito da Panelstory di Vera Chytilova, sorta di novellino sui prefabbricati sovietici in costruzione.

“La generazione perduta” tra militanza e dipendenza

La generazione perduta restituisce con grande lucidità il profilo di un cronista balzacchiano, affamato di storie e contatti umani, capace come nessun altro di raccontare in presa diretta quei fenomeni e quei fatti dal centro del magma che li generò; ma anche il ritratto di un ragazzo generoso e fiero, pronto a rivendicare una forma privata di nichilismo e segnato da un «coraggio dettato dalla disperazione»: con queste parole lo descrive nel libro Francesca Comencini, che frequentò Rivolta nei suoi ultimi anni ma non ha partecipato al documentario. 

“Martha” 50 anni fa

Compreso tra la La paura mangia l’anima, rifacimento proletario di Secondo amore di Sirk, e l’incursione ottocentesca di Effi Briest, Martha porta in ambienti prima barocchi poi goticheggianti una vicenda di rieducazione perversa e vampirismo coniugale, magari influenzata dalle due regie ibseniane del periodo (Hedda Gabler al Freie Volksbühne di Berlino nel dicembre ’73 e Nora Helmer, adattamento di Casa di bambola per il piccolo schermo), e calata in un’atmosfera noir, derivata dal racconto di Cornell Woolrich cui è liberamente ispirato il soggetto.

“Roxy” e la mania del controllo

Il film è la storia di un uomo ossessivo-compulsivo che, imparando il cinismo e la tenerezza da chi lo circonda, arriva a estendere sulla vita di una famiglia in pericolo le manie di controllo che già esercita dentro e fuori casa: durante i titoli di testa una serie dettagli ce lo mostra mentre regola meticolosamente il traffico di una ferrovia in miniatura; nel suo appartamento ogni oggetto ha un posto preciso; nel bar la macchina da presa segue i gesti del tassista quando non resiste a pulire un ripiano appena appena sporco.

“Le due sorelle” 50 anni fa

Nel 1973 De Palma girò Le due sorelle, thriller al femminile e horror psicologico che anticipa molti elementi tematici e alcuni stilemi del suo cinema immediatamente successivo: le morbosità familiari di Complesso di colpa, la paura della sessualità femminile in Carrie, lo split screen inimitabile di Blow Out, lo sdoppiamento patologico in Dressed to Kill, e ancora il dichiarato voyeurismo della soggettiva, i colpi di scena suggeriti dai giochi d’ombre e le ossessioni private di tanti suoi personaggi a venire.

Speciale “The Whale” I – L’empatia perversa

The Whale rivela una forza inattesa, perché dimostra di avere qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto a quello cui il regista newyorchese ha abituato il pubblico. Quel che ha di meno è la riduzione dell’elemento visionario che spesso risulta ingombrante in Aronofsky, e qui invece compare nel finale in una declinazione giustamente enigmatica. Quel che ha di più è il coraggio di ammettere, sin dalla limitatezza dei movimenti di macchina e dalla fotografia uggiosa, la volontà di essere onesto a costo di essere sgradevole.

“Marcel the Shell” e lo spirito inorganico della conchiglia

Tra diario domestico delle solitudini pandemiche e favola morale in formato ridotto, Marcel the Shell si finge un documentario sulla convivenza tra il regista, fresco di separazione dalla moglie, e due occhiute conchiglie con le scarpe, il buffo, determinato e canterino Marcel e l’assennata nonna Connie, cui presta la voce Isabella Rossellini, bruscamente separati due anni prima dalla famiglia e dalla “comunità” (è proprio il termine usato da Marcel) di appartenenza, composta da quegli esemplari che chiunque potrebbe incontrare tra la polvere sotto il proprio mobilio, o – suggerisce il film – nel cassetto dei calzini.

Speciale Park Chan-wook – “Decision to Leave” e l’esperienza del déjà vu

Come per il picco della montagna da cui è caduto il marito di Song Seo-rae, che ha lo stesso profilo del mucchio di sabbia abbattuto dall’alta marea nel finale, in certe inquadrature fintamente neutre Park dissemina indizi per la soluzione dell’indagine e soprattutto segnali dell’inganno amoroso che tornano nelle scene più cariche di pathos, riportando Decision to Leave ai temi fondamentali della sua filmografia: l’artificio sistematico della vita, l’illusione imprescindibile al sentimento, la necessità di non sapere e l’impossibilità di non chiedere.

“Babylon” speciale IV – Le stelle fredde

Il quinto, rutilante lungometraggio di Damien Chazelle non lascia spazio a vuoti o silenzi di sorta, quasi temesse di ricavarne ansia o, più banalmente, il regista non sapesse come gestirli, trascinato com’è dall’ambizione di saturare al massimo grado ogni fotogramma. Chazelle ha confezionato un film tumultuoso e affollatissimo di personaggi eventi rumori spesso ripresi da vecchie pellicole, una fiera delle vanità extra-large di oltre tre ore.

“Aftersun” e la memoria intermittente

È difficile spiegare a chi non le ha mai provate certe cose tanto semplici quanto irripetibili: stendersi sopra un grande tappeto di lana, giocare a biliardo con ragazzi più grandi, mangiare l’ultimo cucchiaino del gelato di qualcun altro, fumare una sigaretta su un balcone di notte, spalmare la crema solare sulla schiena di una persona che ami. O ancora, un tuffo. Di cose e momenti come questi è fatto Aftersun, l’esordio di Charlotte Wells.