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“I compari” sconfitti del capitalismo americano

Ambientato all’inizio del XX secolo in una cosiddetta boomtown nel nordovest degli Stati Uniti, I compari è un grande film emozionale sull’affermazione del capitalismo, su come apparentemente agisca da collante tra vite che in realtà conduce all’estraneazione e alla rinuncia – un film sugli sconfitti e sul calore irrecuperabile sprigionato dalla loro sconfitta.

“I Disperati di Sandór” e i rapporti di forza della Storia

Il cinema politico di Miklós Jancsó ha il potere di ristabilire i rapporti di forza occultati dalla Storia, convertendo episodi anche poco conosciuti della vicenda nazionale ungherese in arcate narrative di assoluto rigore visivo. Alla ricostruzione esplicativa dei fatti subentra una lucida esegesi delle invarianti e delle trappole dei processi contro-rivoluzionari, e in generale della violenza fisica e ancor più psicologica indispensabile agli ordinamenti sociali dell’età moderna.

“I ruggenti anni venti” e la solitudine del gangster

1927, 1932, 1939: la durata effettiva e l’importanza del decennio d’oro del gangster movie per il cinema americano (e non) a venire si misurano a partire da questi tre anni. Le notti di Chicago, Scarface, I ruggenti anni venti: dall’emersione del sottosuolo criminale di von Sternberg, (ir)realistico e animalesco, al dramma shakespeariano di Hawks, fino alla fosca elegia di Walsh per la fine del gangster come incarnazione dell’homo novus americano.

“Bona” e il cinema urlato di Lino Brocka

Tra oltranze e oltraggi, abusi e abiure, il cinema di Lino Brocka urla ancora. Nei colori aspri e nei richiami notturni di Bona gli slum di Manila diventano le quinte perfette per mettere in scena un melodramma originalissimo. La grandezza del cinema di Brocka sta nell’aver compreso la vitalità senza via d’uscita di un intero paese (prima, durante e dopo le leggi marziali di Marcos), e nell’averla trasmessa ai suoi personaggi.

“Quattro notti di un sognatore” distillato bressoniano

Se nell’impianto narrativo Quattro notti di un sognatore resta alquanto fedele al racconto di Dostoevskij, l’atmosfera è invece un distillato di rarefazione bressoniana: intorno a pochi elementi ricorrenti e quasi astratti (il ponte, il fiume, il bateau mouche, le insegne luminose) la flânerie sentimentale di Jacques e Marthe tarda a diventare reale, mentre gli intermezzi dei giovani che suonano sui marciapiedi o sull’imbarcazione funzionano come veri e propri entr’acte che dilatano ulteriormente l’attesa.

“L’Impero” di Dumont, poema eroicomico per immagini

Più che meritato Orso d’argento alla Berlinale, L’Impero è un oggetto filmico non identificabile. Come in anni recenti hanno fatto The Grandmaster di Wong Kar-wai per le arti marziali o La ballata di Buster Scruggs dei Coen col western, si tratta di un film che, sfondando allegramente le distinzioni tra i generi e le regole dell’industria, insieme alle aspettative della critica e le abitudini del pubblico, scombina tanto l’esperienza cinematografica contemporanea quanto ogni legittimità della sua interpretazione.

“L’arpa birmana” che riconosce l’umano in ogni cosa

In quanto testimone isolato degli effetti disumani del conflitto Mizushima si sente chiamato al lavoro definitivo della pietà: seppellire i morti, i morti sconosciuti e dimenticati che affollano le valli e le coste della Birmania, i morti che non appartengono più a nessuno. Così impara a riconoscere l’umano in ogni cosa, nel volto di un bambino cui insegnare a suonare il suo strumento, nelle ossa incrostate di fango al bordo di un fiume, nel pappagallo che gli sta sempre appollaiato sulla spalla, in un rubino trovato per caso nello scavare una tomba.

“A Traveler’s Needs” indifferente alle convenzioni cinematografiche

Attraverso un digitale lo-fi che predilige la luce naturale e l’improvvisazione tra gli attori Hong fa vivere palpabilmente gli stati d’animo che accompagnano il riconoscimento o il rifiuto (è il caso della madre del ragazzo) dell’alterità, e ancor più la tenerezza imprevista che una mano sulla spalla o la lettura condivisa di una poesia possono ispirare. La ripetizione, con minime ma significative variazioni, di battute e atteggiamenti fa parte di quella maieutica dell’emotività illustrata anche dalle lezioni di francese.

“Foglie al vento” sullo sfondo del cinema

Foglie al vento ribadisce la fiducia di un autore – e, vogliamo credere, anche del suo pubblico – nell’umanità del cinema, nell’autonomia delle speranze e delle diaspore che solo la pellicola conosce. È un po’ come se le traversie dei personaggi kaurismäkiani, sempre in bilico tra deriva e rinascita, si svolgessero tutte all’interno di una sala cinematografica. Perciò le loro scelte e i loro gesti rispondono alle esigenze di una messa in scena tanto essenziale quanto irrealistica e spesso puntano al cinema muto.

Un bilancio del Festival dei Popoli 2023

Di corpi e di cosa significhi averne (o averne avuto) uno pare aver molto da mostrare quest’anno il Festival dei Popoli di Firenze, giunto alla sessantaquattresima edizione. Almeno a giudicare dalla programmazione dei primi tre giorni, nonché dal motto ufficiale: My Body Is a Noise, forse preso in prestito dal film di apertura Joan Baez, I Am a Noise, tentativo di esaurimento di un’icona dietro la quale tanti io diversi aspettavano di essere raccontati.

“Film Bianco” mediano ma supremo

Sarà la posizione mediana, in ogni caso Film Bianco resta il “colore” (la tastiera aveva inizialmente scritto “dolore”, refuso rivelatorio quant’altri mai) solitamente più trascurato quando in realtà è quello massimamente esemplare della suprema capacità di Kieslowski di dare forma e temperatura alla temporalità altrimenti invisibile delle scelte decisive e degli scambi di personalità, riconoscendo la stessa importanza ai silenzi o ai colpi di scena, alle lacrime inattese e al desiderio più flagrante.

“Profundo Carmesí” ibrido sanguigno di generi e umori

Ispirandosi ai terrificanti delitti perpetrati da una coppia di amanti negli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta (già alla base di The Honeymoon Killers di Leonard Kastle), Ripstein costruisce il film come un ibrido sanguigno di classici americani e generi della cinematografia messicana di metà secolo, sostenuto da un umorismo nerissimo tipicamente ispanofono: le venature da thriller notturno si adeguano alla lezione satirica di Luis García Berlanga.

“Passages” dentro felicità e squilibri

Per quanto improbabili e a tratti insopportabili siano il benessere e la disinvoltura ostentati dai protagonisti rispetto al costo della vita a Parigi, è davvero difficile rimanere indifferenti alla loro vitalità, che è poi la stessa del ritmo irresoluto e degli squilibri imperterriti esibiti da Sachs in termini registici. La felicità di ciascuno di loro significa l’infelicità di uno degli altri tre, e i “passaggi” sono necessari ad assicurare al triangolo una forma di precaria stabilità, fino al punto di rottura finale.

“La donna della spiaggia” e il cinema onirico di Renoir

Se è vero che ogni cosa trova una sua sistemazione, nella gioia o nel dolore, attraverso lo sguardo di Renoir, lo stesso non si può dire della travagliata storia produttiva del film, uscito nel ’47: riscritto a più riprese e rimontato due volte per volontà della RKO, fu comunque un insuccesso e costò a Renoir la carriera hollywoodiana. Restaurato qualche anno fa a partire da un duplicato di sicurezza del negativo 35mm, lo si ammira oggi come un noir decisamente atipico, perché imbevuto di un’atmosfera sognante e di un torbido mistero legato alle implicazioni inconsce piuttosto che all’intrigo adulterino.

“Quinto non ammazzare!” e il dilemma del colpevole

Con la complicità del sapiente Paul Ivano alla fotografia Siodmak, esule tedesco a Hollywood dallo scoppio della seconda guerra mondiale, congegna un meccanismo di suspense quasi insostenibile a partire da pochi, sceltissimi elementi (valorizzati dal restauro del negativo originale in nitrato): il buio concesso dal mobilio kitsch delle villette a schiera, la nebbia apparentemente innocua dei quartieri residenziali della Londra edwardiana, l’indecisione tra chi sia davvero vittima e chi davvero colpevole.

Una diade luminosa nel cinema di Kinugasa

Sia in Kurutta Ichipei che in Jujiro c’è un tentativo fallito di salvazione – al marito sta la sorella, come alla moglie sta il fratello – una fuga impossibile verso la luce, prima che sia definitivamente spenta. Solo apparentemente più lineare del predecessore, Jujiro stravolge in verità ogni convenzione dell’epoca: quanta struggente meraviglia nelle gocce di pioggia rappresa tra i capelli dei due fratelli che si sostengono a vicenda, che atroce incanto nelle immagini quasi astratte di polveri, fiamme e alberi che passano negli occhi di Rikiya quando si accorge di aver vagheggiato invano la felicità.

“Shirasagi” e le geometrie dell’amore in Teinosuke Kinugasa

Se nel sontuoso e marziale La porta dell’inferno aveva usato i carrelli laterali per imitare lo srotolarsi di un emakimono, cinque anni dopo Kinugasa riesce magistralmente a portare in Shirasagi (L’airone bianco) lo sfumato della pittura nipponica e un certo lirismo naturalistico di contorno, ottenuto attraverso la punteggiatura vegetale dei cortili e le ruote dei risciò parcheggiati che ritmano i margini delle inquadrature notturne. Bandito ogni movimento di macchina, la sintassi visiva è affidata completamente alla profondità di campo, che in questo film raggiunge livelli di significato inauditi.

“Paura e desiderio” del cinema di Kubrick

Incarnando le passioni primarie negli sguardi allucinati e nei gesti violenti dei personaggi, Paura e desiderio si presenta come un film spinoziano, non meno che shakespeariano, dove la ragione abita la natura silente e fintamente immobile (il sottobosco tormentato dalle mani di Corby e del soldato semplice Sidney, il fiume dove “scorre” il monologo interiore del sergente Mac) e agli uomini non resta che abbandonarsi agli istinti omicidi e alla sopraffazione sessuale, ma anche ai deliri ispirati al Prospero della Tempesta, alla speranza di un incantesimo di salvezza.

“Animal House” e l’anarchia incoronata

Rivendendolo oggi, di Animal House si può dire che è a tutti gli effetti una pietra miliare, perché, oltre ad aver avuto troppe imitazioni e nessun degno erede, segna il momento più insubordinato e iconoclasta di una stagione della comicità statunitense che, frullando insieme i fratelli Marx e John Waters, poteva permettersi ancora di intendere “demenziale” come sinonimo di “politico”. Animal House è una fragorosa e pantagruelica satira dell’America wasp nonché farsa distruttiva delle aspirazioni liberal del paese più imperialista del mondo.

“Cane che abbaia non morde” e il cinema del sottosuolo

Riconosciamo l’insolubilità di registri (satira sociale, melodramma domestico, orrore suburbano) che Bong eredita dalla contradditoria storia dell’industria cinematografica coreana. Il regista di Taegu esplora con curiosità etologica il sottosuolo strutturale e morale del proprio paese (forse di ogni paese), brulicante di affaristi, pusillanimi e idealisti delusi, con toni tanto violenti e onirici quanto parodici presi in prestito da Panelstory di Vera Chytilova, sorta di novellino sui prefabbricati sovietici in costruzione.