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“L’esorcista” 50 anni dopo
L’esorcista può essere analizzato come un horror da camera in cui convivono stilemi classici del genere (la discesa dalle scale di Regan come un ragno, la camera spettrale in cui si consuma l’esorcismo), soluzioni vicine allo splatter “new horror” (la scena della masturbazione, i liquami emessi dall’indemoniata) e una tensione emotiva sotterranea che fa percepire nevrosi e traumi del quotidiano attraverso la metafora della possessione.
“Oppenheimer” speciale II – La filosofia di Nolan
Nolan fuoriesce dall’illusione (ripensiamo a The Prestige o a Interstellar) e penetra un immaginario più denso, cupo, vero, abitato da fantasmi atomici e vite immerse nell’ambiguità etica; non più immaginazione foriera di duplicazioni e moltiplicazioni illusionistiche e pseudoscientifiche. Nulla di ciò che vediamo è falsificato o falsificabile, proprio come un postulato fisico, e tutto ciò che riprende la macchina da presa si esaurisce nell’impossibilità di una nuova ri-trasformazione umanistica post-atomica.
“Il rito” come metateatro televisivo di Bergman
Il rito nacque da un esperimento televisivo che lo stesso regista sconsigliò a “tutte le persone anche minimamente impressionabili” perché è un film nichilista, un’opera che mette al bando la parola empatica e dichiara il fallimento della condivisione tra gli esseri umani, senza toni apologetici; se nulla serve a redimere e nessuna morale ne scaturisce, allora la performance finale dei tre attori mascherati diventa a tutti gli effetti un artificio retorico che scardina la convenzionalità del mezzo artistico, quasi un workshop di body art a carattere persecutorio.
“Winter Boy” in bilico tra Eros e Thanatos
Come in La Belle Personne, Christophe Honoré filma i pensieri e le emozioni fluttuanti che esondano rompendo persino gli argini della moralità senza però che il narratore diventi mai inattendibile. Il giovane flâneur non è Zeno Cosini, non gioca attraverso false piste psicanalitiche ma, raccontando e raccontandosi, si “diverte”, nel senso etimologico del termine, volgendosi altrove, allontanandosi da una classica rielaborazione del lutto per esplorare la frenesia di una giovinezza in bilico tra Eros e Thanatos.
“Sussurri e grida” 50 anni fa
Bergman riesce a mettere a fuoco le dinamiche e i conflitti provenienti dai traumi del passato, celebrando un disperato cerimoniale femminile in uno spazio liminale tra la vita e la morte, organizzato secondo rapporti di simmetria assiologica: Agnes, la sorella in fin di vita, è come la sua devota domestica Anna, affamata d’amore umano e divino, mentre Karin e Maria appartengono alla schiera delle peccatrici senza Dio.
“Il patto del silenzio” e lo sguardo dei bambini
Il patto del silenzio diventa il film manifesto del bullismo, interpretato con vigore e slancio passionale dalla straordinaria Maya Vanderbeque e girato da una regista che ha ben compreso che i ragazzini protagonisti, esploratori di una realtà sociale sporcata dalla crudeltà dei minori e dall’incapacità di contenimento da parte del mondo adulto, non riescono a stare sulle spalle dei giganti.
“The Quiet Girl” e la timida scoperta del mondo
Ispirandosi a Foster, una storia breve di Claire Keegan pubblicata nel 2009 sul New Yorker, il regista vuole raccontare una vicenda di crescita individuale e allo stesso tempo scandagliare le lacerazioni emotive che si aprono all’interno di un nucleo familiare piegato dalla povertà e dall’autoritarismo del capo famiglia. Cáit accarezza la vita, guarda il mondo senza disincanto proiettando sulle cose il desiderio di una timida scoperta.
“The Fabelmans” Speciale II – Seeing is Believing
La poetica di Spielberg non è strettamente rinchiusa nell’ottica di una “cinematic society” o nella visione di un autore che cerca l’integrazione dell’individuo nella collettività (americana) della storia, ma è centrata sul punto di vista interno di un cinefilo che ripercorre le tappe della sua formazione senza alcun coup de théâtre, nel concepimento di un “lessico familiare” poeticamente denso e talvolta affilato, che affonda le sue radici in un solo grande movimento cinematografico, il suo, rischiarato dai volti in estasi, svelato dalle impetuose carrellate in cui si palesano il feticismo americano, l’idealizzazione sofferta dell’american way of life, la rappresentazione della famiglia disfunzionale e il cinema come cura e riabilitazione.
“That Kind of Summer” e la parola sessuale
Tra i lavori del prolifico autore canadese Denis Côté, That Kind of Summer risalta per la capacità icastica di rappresentare il femminile all’interno di una sessualità compulsiva, tema che nell’ambiente cinefilo franco-canadese è per molti versi ancora irrappresentabile. Con la forza dirompente di una parola che descrive con precisione fantasie sregolate e sensi di colpa rimossi, il regista filma l’impeto drammatico che irrompe come un fiume in piena di didascalie minuziose e acrobazie erotiche, ribadendo che esiste una giusta distanza tra la rappresentazione realistica, ma non voyeuristica, del desiderio femminile e il tabù che si nasconde dietro la compulsione.
Un oscuro scrutare. “Twin Peaks – Fire Walk with Me” e il valzer onirico
In Fire Walk with Me assistiamo a una proliferazione dei temi cari al regista di Missoula in cui il rimosso del tubo catodico torna a infestare il grande schermo, lungo traiettorie schizofreniche che ricreano le allucinazioni di un mondo non troppo lontano, terminato nel giugno del 1991. Non più un cerchio, dunque, né la profanazione di un’opera di culto ancorata alle sperimentazioni seriali degli anni Novanta, ma una rifrazione ricognitiva che cataloga tutto il visibile e tutto ciò che appare come “un sogno dentro un sogno”.
“Ieri, oggi, domani” e il realismo “de core” all’italiana
Dal carosello napoletano in cui annaspa la “sigarettara” Adelina, di gravidanza in gravidanza, all’episodio on the road lungo la Milano-Laghi, fino all’iconica storia di Mara, prostituta d’alto bordo in cerca di redenzione, il film crea una vivida rappresentazione della vita urbana del belpaese, passando dal colore acceso partenopeo al manierismo romano (a cui una mano hanno dato Giuseppe Rotunno con le sue cartoline capitoline e la straripante Sophia Loren che manda in estasi Mastroianni sulle note di Abat-Jour nella celebre scena dello striptease).
La poetica della diversione. Ancora su “Tromperie – Inganno”
Desplechin sembra aver messo in pratica l’idea che Truffaut esprimeva nel 1957 sul “film di domani”, nel suo sprezzante articolo Le cinéma français créve sous les fausses légendes che sosteneva l’impellenza di un nuovo modo di fare cinema, ancora più personale, individuale, autobiografico di un romanzo, come una confessione, un diario, un atto d’amore. Il regista scandaglia i recessi della scrittura intima di Philip Roth, componendo una sarabanda di dialoghi in cui le donne dello scrittore si raccontano attraverso un’inesorabile ipnosi verbale al quale ci si abbandona come fosse una sacrale confessione sulla vita e sull’amore.
“Lamb” e il bestiario dell’orrore
Lamb è il frutto di una mescolanza di visioni e svolte narrative che lo rendono un film ipnotico, in perfetto equilibrio tra l’elemento mitologico – troll e creature demoniche sembrano sempre sul punto di sgusciar fuori per infrangere le regole del reale – e il fantastico psicanalitico, sentiero perturbante battuto dalle lacerazioni dell’anima e dai rovesciamenti prodotti dall’inconscio. Non è un caso che il “mondo altro” sia annunciato attraverso una serie di simboli e presagi e una lenta penetrazione della macchina da presa nella quotidianità di una coppia stretta in un disagio sentimentale quasi afasico.
“Spencer” come fantasmagoria di palazzo
Pablo Larraín racconta le fughe e i ricongiungimenti di un personaggio tormentato attraverso cui emerge il portato socio-culturale di un intero paese, costruisce un’identità schizofrenica, ingabbiata da una ripresa che alterna movimenti spasmodici, carrellate e una sovrabbondanza di piani autoriferiti ed “egotisti”; tutto intorno sfilano corridoi, spazi aperti, interni claustrali, stanze e simulacri del potere, alberi e prati, il tumulto interiore di una vita sbilenca e di una storia privata che trascolora nella mitologia pubblica.
“Teorema” incubus ipnotico della borghesia
Il teorema pasoliniano è fin dal principio un serpente uroboro dilaniato da una sessualità “linguistica” e dal sacro esibito, difatti il prologo, gonfio di parole e parossistico nelle riprese – un cronista intervista alcuni operai che hanno ricevuto in dono dal padrone una fabbrica – racchiude in sé l’inizio e la fine di tutto, metaforicamente rappresentati dallo svuotamento identitario al quale giungono gradualmente tutti i personaggi-marionetta messi in scena: da Emilia, la domestica che sceglierà l’estasi e infine il ritorno alla terra madre, al padre, vero simbolo di perdita e alienazione, respinto nel deserto dell’esistenza dopo essersi spogliato dei propri abiti in un nitido simbolismo francescano.
“Una femmina” nel paese dei ciechi
Presentato a Berlino, nella sezione Panorama, Una femmina è l’esordio dietro la macchina da presa del cosentino Francesco Costabile, testimone e narratore della piaga mafiosa calabrese. Ispirato al volume-inchiesta di Lirio Abbate Fimmine ribelli, il film è dedicato “a tutte le femmine ribelli” e “a tutte le vittime della ‘ndrangheta”. La storia, il cui soggetto è di Edoardo De Angelis e Abbate, penetra fin nel profondo della cruda esistenza mafiosa ai margini della società, fino a diventare essa stessa parte del paesaggio, buia e spigolosa, in equilibrio tra sfocature ed ellissi che non ammettono sprazzi di luce, in cui ogni riverbero si consuma sulla pietra tagliente e si strozza sulle rive riarse.
“Il bar delle grandi speranze” stemperato nella malinconia
Il film, tratto dal memoir di J.R. Moehringer e sceneggiato da William Monahan, è una fiaba suburbana che ripropone il tema, molto americano, dei padri che si emancipano dai figli (pensiamo agli ultimi Interstellar, Honey Boy, Ad Astra) che, alla forza prorompente dei ruvidi narratori del Midwest, contrappone toni edificanti e una rievocazione del passato malinconica: un idillio familiare della working class. Lo sguardo e il punto di vista, infatti, sono quelli di chi anela a un altrove idealizzato, colmo di successo e soddisfazioni personali, oltre che di rivalsa, ma senza che la narrazione diventi critica tagliente nei confronti del sogno americano infranto.the t
One Woman Show. “Shiva Baby” e il realismo deformante
Shiva Baby, contrappuntato dalla colonna sonora snervante e tesa di Ariel Marx, ambientato quasi interamente in una escape-room e incentrato sulla partecipazione a una cerimonia funebre ebraica, non è un horror, ma un social-cringe-thriller: un “carnage” da camera o una modulazione del dramma satirico à la Vinterberg, dove sono messe a fuoco le relazioni pericolose tra consanguinei borghesi; insomma, una “festen” macabra dal colore ebraico e dal retrogusto amaro in cui la giovane protagonista affoga in un mare di risentimento.
Poor Man. “Una donna promettente” come pedagogia dei generi
Una donna promettente è sì un rape & revenge, ma qui lo stupro è solo evocato e la vendetta si risolve in una drammaturgia cadenzata che rielabora le colpe maschili senza eccessive inondazioni di sangue. Emerald Fennell segue la donna nella sua missione salvifica, avendo cura di porla sempre al centro dell’inquadratura e concentrando la sua scrittura composta nella rielaborazione del tragico: lo stupro dell’amica; il muro di omertà e reticenza di chi ha preferito tacere; la violazione fisica e virtuale del corpo femminile. La protagonista diventa simbolo, poi martire, di un post-femminismo votato a una pedagogia dei generi, messo in scena come un apologo morale che deve formare e orientare le coscienze.
“Mank” film bergsoniano
Per molti aspetti Mank è un’opera in serie, nel senso che continua a moltiplicare l’icona wellesiana su Netflix dopo The Other Side of the Wind e Mi ameranno quando sarò morto, rafforzando di conseguenza il sistema produttivo e distributivo di una piattaforma sempre più autoriale; questo nuovo racconto sullo star system mostra la superficie ovattata e conflittuale di una Hollywood fallocentrica e prova a spiegarci la nascita della sceneggiatura di Quarto potere senza però creare quegli affondi registici che hanno connotato in passato le letture ben più stratificate e profonde di Fincher. Mank è una piacevole divagazione poetica in bianco e nero, un biopic di pregevole fattura calato mimeticamente negli anni della Golden Age hollywoodiana, riportata in vita con suggestivi effetti sonori e scenografici d’epoca.