“The Wind” che scava le coscienze

Ultimo film muto americano prodotto dalla MGM prima del ritorno in terra svedese, The Wind risulta essere all’epoca un film tutt’altro che facile da girare. Si può solo lontanamente immaginare come le forti e roventi raffiche di vento (artificiale, in quanto create dai motori di aeroplani portati sul set), nonché le temperature estreme del deserto del Mojave abbiano influito sulla resistenza fisica (nonché psicologica) degli attori durante la scena della traversata a cavallo nella desolazione più totale.

“The Devil in Miss Jones” contro la repressione sessuale

L’occulto fa in Miss Jones da contraltare positivo alla repressione sessuale, più o meno esplicita, che accumuna gran parte dei protagonisti femminili del cinema statunitense del passato. Il titolo stesso del film (The Devil in Miss Jones) fa il verso a The Devil and Miss Jones (in Italia Il diavolo si converte, 1941), sfottendo una rappresentazione antiquata di donna fiera della sua frigidità, più devota al dovere e alla prole che a sé stessa.

“Il bandito della casbah” onirico oltre il realismo

È impossibile non rimanere affascinati da questa figura di malvivente fragile che sogna di ritornare in patria insieme alla donna che ama e questa è un’altra peculiarità non banale del film, anche se largamente condivisa con altri film del “realismo poetico” come Il porto delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939), sempre con Gabin: il suo spingerci a empatizzare con un personaggio, che, più che un criminale, sembra un senza terra, e più che dalla polizia, appare essere braccato da un destino incombente.

“Chijo” malinconicamente incontaminato

Chijo di Kozaburo Yoshimura è ambientato nel periodo Taisho (1912-1926), un’epoca in cui si sentono fortemente gli echi della Grande Rivoluzione Socialista russa, e quindi i moti di operai, contadini e soldati. Il vero protagonista di questo film è la fabbrica di ceramiche di Kanazawa (conosciuta anche come la “piccola Kyoto”) e la rivolta degli operai, donne e uomini, giovani e vecchi, che decidono di creare una sommossa contro i padroni per ottenere maggiori diritti: aumento del salario e più giorni di riposo.

“Golden Eighties” tra vetrina e vertigine

Golden Eighties esibisce con lucidità dialettica la vetrinizzazione del mondo moderno costringendo lo spettatore a fare i conti con il proprio sguardo ormai sempre più esposto e ossessionato da schermi di vario genere e con i propri automatismi emotivi in una società iper-industrializzata caratterizzata dalla riproduzione seriale pressoché illimitata anche delle emozioni.

“Die Frau, nach der man sich sehnt” e l’invenzione di Marlene

Si naviga del mare del melodramma, con i vizi e le virtu’ polarizzate in un triangolo micidiale in cui non ci saranno vincitori ma solo vinti; nell’interpretare la femme fatale Marlene Dietrich si spinge un gradino più in su della mera rappresentazione, la vita vissuta appare come un ruolo assegnato dal fato quale disegno drammatico e irrevocabile, al quale la protagonista non potrà sottrarsi, pagando con la vita.

“Bílý Ráj” puzzle con i pezzi al posto giusto

All’interno di Bílý Ráj troviamo dunque diversi personaggi interessanti: un regista, Karel Lamac, grande conoscitore del cinema internazionale, che cercherà negli anni successivi di sperimentare e giocare con i generi; un’attrice, Anny Ondráková, meglio nota al pubblico come Anny Ondra, che sarà poi protagonista in Ricatto (Blackmail) di Alfred Hitchcock (1929); un operatore, Otto Heller, che sarà uno dei più importanti della prima cinematografia ceca; uno sceneggiatore, Václav Wasserman che sarà autore di tante storie interessanti.

“I monelli” e i panni sporchi della Spagna franchista

L’esordio alla regia di Carlos Saura è un affresco della condizione dei giovani sottoproletari nelle degradate periferie urbane della Spagna franchista. I sei protagonisti, uniti da una forte solidarietà, attraverso furti e aggressioni, cercano di coronare il sogno di uno di loro di diventare torero. Pesantemente censurato e poi paradossalmente scelto dal regime per rappresentare la Spagna a Cannes, ritorna nella versione originale grazie a un complesso lavoro di restauro della Filmoteca Española.

Peckinpah e Dylan nel crepuscolo degli idoli

Il canto del cigno di un’epoca è affidato alla voce consumata dello storyteller di Duluth, Robert Allen Zimmerman, meglio noto come Bob Dylan. Tra evocazioni sonore tex-mex e minimali tocchi di chitarra che si intensificano, in un finale barocco, mischiandosi a tre vocalist, flauti, violoncelli e contrabbassi, il menestrello americano si fa voce e corpo di un Ovest al suo tramonto nello struggente Pat Garrett e Billy Kid di Sam Peckinpah.

“Jacques Demy, le Rose et le Noir” nel vortice en chanté

In Jacques Demy, le Rose et le Noir si agita un vortice poliforme che riesce a saldare l’esperienza biografica del regista alla dimensione onirica dei suoi film che, nel tripudio estetico, musicale e coloristico, nascondono il fatalismo dell’amour fou, gli ingranaggi inceppati dell’esistenza, l’indissolubile presenza di un manque che è espressione di pessimismo illuminato e dolci illusioni. 

L’Heimatfilm nella Repubblica Federale Tedesca

Nel 1949 escono due Heimatfilm per molti versi affini. Il primo è Die seltsame Geschichte des Brandner Kaspar di Josef von Báky, tratto da una storia molto nota in area bavarese, soprattutto grazie al racconto in dialetto di Franz von Kobell. In realtà quella di Brandner Kaspar è una storia nota in tutto il mondo, raccontata nel corso della storia in molti modi diversi, quella dell’incontro con la morte in persona. Il secondo film è Caino!, primo lungometraggio di Harald Reinl, che si era formato sui set lavorando come assistente di Leni Riefenstahl.

“Omicidio a luci rosse” e il mondo di cartapesta di Hollywood

Omicidio a luci rosse ha il potere di guadagnare fascino a ogni visione, come quando si ripercorre un proprio sogno trovando attraenti immagini o simboli che prima apparivano privi di significato.. È l’andatura spezzettata e caotica del sogno a definire la parabola narrativa di Jake, in viaggio attraverso l’immenso parco divertimenti hollywoodiano. Un mondo di cartapesta dove il confine tra reale e artificiale svanisce in una dissolvenza incrociata.

“La città si difende” e il noir all’italiana

Pur ricevendo il Premio per il miglior film italiano alla dodicesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, La città si difende non fu generalmente apprezzato dalla critica italiana né nella cornice veneziana né all’uscita nelle sale. Queste valutazioni hanno contribuito al progressivo oblio a cui il film è stato consegnato, oscurando così anche quella rielaborazione di un immaginario noir attraverso modelli nazionali che il cinema italiano inizia a compiere fin dai primi anni Cinquanta .

“Chemi Bebia” tra avanguardia e politica

In un mix di commedia slapstick e surrealismo grottesco, Mikaberidze utilizza molte delle cifre stilistiche di ripresa e delle tecniche di montaggio messe a punto dall’avanguardia russa per sorprendere e disorientare il pubblico, dando forma a un film fortemente politico. Pur condannando l’inefficienza e elevando il proletariato operaio allo status di dio annientatore il film fu tacciato di eccessivo formalismo e di proporre un modello negativo del regime.

“La conversazione” dal passato al nostro futuro

Oggi La Conversazione ci appare un film capace di dialogare con molte dimensioni diverse. Ci parla del passato: la tecnologia analogica che iniziava a minare la libertà individuale; la realtà che non era come appariva; il richiamo allo scandalo Watergate del cui clima di smarrimento e sconcerto sicuramente la pellicola si nutre. Ci riporta al nostro presente: l’invadenza della tecnologia – ora non più analogica ma digitale – nella vita privata e quotidiana; il conseguente rischio di svuotamento e perdita di identità a cui siamo anestetizzati.

“La conversazione” e la maschera teatrale del sogno americano

Non solo denuncia politica e apologo morale, La conversazione è un gioiello della New Hollywood. Sviluppato indizio dopo indizio attraverso la forza drammatica di un volto anodino e significativo al contempo, in grado di aggiungere malinconia alla maschera teatrale del sogno americano, e con l’affascinante lavoro di Walter Murch, montatore e tecnico del suono, il cui contributo si è dimostrato fondamentale nel conferire sostanza a immagini ed emozioni.

“Freaks” estraneo alla norma sociale

Non vale qui la solita retorica dei film sulla diversità, il classico “chi sono i veri mostri” di The Elephant Man o La bella e la bestia, in Freaks la rivalsa del diverso si raggiunge tramite l’efferatezza di cui solo una persona “normale” sarebbe capace. Browning è sempre stato il solo a credere nel progetto e nella dignità degli attori che aveva ingaggiato, veri artisti affetti da disabilità con una carriera alle spalle.

“Freaks”, le sequenze tagliate e la maledizione del film

In mancanza di documenti che comprovino quali siano stati in modo circostanziato i tagli inferti al film, sono state avanzate varie ipotesi. Secondo Fabrice Ziolkowski, “queste scene erano più esplicite sulla sorte di Hercules, l’uomo forzuto. Dato che il film insisteva sul tema della castrazione (corpi mutilati, deformati), sembra il risultato di un’azione censoria il fatto che, nelle copie attuali, Hercules appaia nella scena in cui urla vedendo avvicinarsi i membri del circo armati di coltelli e di altri strumenti da taglio, e poi la sua sorte sia lasciata così in sospeso”.

“La visita” e i ritratti di donna di Antonio Pietrangeli

  1. Regista e sceneggiatore tra i grandi dimenticati del cinema italiano a cavallo del boom economico, Antonio Pietrangeli è stato uno dei più acuti osservatori dell’evoluzione dei costumi nazionali e in particolare la figura femminile. Le sue eroine modelli tragici di una modernità che fatica ad affermarsi in un contesto socioculturale ancora retrogrado, nonostante le apparenti aperture. Come Pina, ormai non più giovane nubile di provincia che cerca l’amore per corrispondenza per sfuggire all’ambiente chiuso della campagna emiliana.

“Mean Streets” tra le note dei generi musicali

Domenica in chiesa, lunedì all’inferno, mai titolo italiano è stato più azzeccato per definire le storie semiserie dei delinquentelli della piccola e notturna Italy, pronti ad essere iniziati ai violenti rituali della criminalità organizzata. Nell’autobiografia poetica del figlio prediletto di Little Italy c’è il rock ‘n’ roll che accelera la scena narrativizzandola, il soul che la ammorbidisce con la sua linea melodica, la tradizione lirica italiana che drammatizza il tessuto narrativo.

Cadaveri da ridere nell’armadio di Fernandel

L’ispirazione arriva da un fatto di cronaca di qualche anno prima, con un’anziana signora morta durante un viaggio in auto, rubata poco dopo insieme al cadavere che il nipote aveva provvisoriamente avvolto in un tappeto. Il primo film da regista di Carlo Rim, all’epoca sceneggiatore attivissimo, è una commedia macabra tutta giocata intorno alla carismatica performance di Fernandel, in cui si ride di gusto, tra equivoci, rincorse e armadi che sembrano moltiplicarsi come in un incubo di Magritte.