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“È simpatico, ma gli romperei il muso” e la casualità dell’amore

Il ritmo di César et Rosalie è caratterizzato da un continuo avvicendarsi di colpi e contraccolpi; non si è mai a un epilogo – la struggente inquadratura finale nient’altro è che il prodromo di un qualcosa destinato a durare e a ripetersi eternamente – né a una fine che si adatti ai bisogni dei singoli personaggi o alla tensione drammaturgica. Tensione che non finisce mai perché nel momento in cui ci sembra che Sautet definisca lo spazio per una breve armonia è proprio in quel momento che le scelte dei suoi personaggi la vanno a distruggere. E si ricomincia da capo. 

Sentire il tempo. “L’amante” di Claude Sautet

Oggi è difficile immaginare un cinema come quello di Claude Sautet che si reggeva su una capacità di osservazione disarmante e sulla forza di sequenze che fluivano senza una direzione o un obiettivo definiti, con dei personaggi che sembravano quasi dimenticare di essere davanti a una macchina da presa. La durata di una sequenza o di un campo controcampo è sempre qualcosa di importante ai fini dell’etica/estetica del cineasta. In questo senso, potremmo definire suoi epigoni proprio Kechiche, Garrel o Dumont (e Bresson prima di tutti), per l’appunto tutti autori che hanno fatto proprio il senso e la complessità della durata non come esercizio di stile ma come mezzo per acquisire limpidezza.

“Comizi d’amore” e i corpi della società italiana

Comizi d’amore viene girato nel 1964 e rivederlo oggi crea uno strano effetto. Certo oggi chiunque può armarsi di videocamera e microfono e girare per spiagge, lidi, città, università interrogando giovani e adulti su questioni quali identità, normalità\anormalità e divorzio. Ma negli anni della cosiddetta mutazione antropologica quest’inchiesta aveva un’importanza oltre che politica diremmo quasi esistenziale: fondamentale perché compiuta in un momento storico spartiacque, dopo il quale nulla sarebbe stato come era prima. Pasolini diceva che agli inizi di questa crisi i corpi innocenti venivano visti come l’ultimo baluardo di realtà, concetto che va letto in opposizione a quello di irrealtà, incarnato dalla cultura di massa e dai mass media. Ora invece anche la realtà di questi corpi puri è stata manomessa dal potere consumistico.

“Lo strano amore di Martha Ivers” al Cinema Ritrovato 2020

Lo sguardo vitreo e l’espressione del volto incorruttibile e dura della giovane Martha Ivers alla vista del cadavere della zia assassinata sono già una dichiarazione d’intenti. Nessun dubbio. Nessuna esitazione. Nessun bisogno di redenzione. C’è voluto pochissimo: uccidere la donna e causa del suo malessere “è stato come respirare”, per citare il personaggio di Henry Fonda in Furore di John Ford. Alla regia di Lo strano amore di Martha Ivers c’è invece Lewis Milestone il cui film – oltre che a reggersi sulle splendide interpretazioni di Barbara Stanwyck e un Kirk Douglas alle primissime armi – parla del bisogno di allontanarsi dal proprio passato rimuovendone le macchie e dell’inevitabile senso di colpa che ne consegue. 

Vite parallele. Il cinema di John Hughes e Lawrence Kasdan

Il classico sentimento della nostalgia per epoche mai vissute potrebbe forse motivare la scelta di ri-sprofondare nelle problematiche adolescenziali messe così finemente in scena da Hughes, intraprendendo allo stesso tempo un percorso conoscitivo intimo nelle scritture diversificate e nel carattere quanto mai composito della filmografia di Kasdan. Due cineasti contemporanei ma abbastanza dissimili nello stile e nel modo in cui cercavano di raccontare il mondo. Da un lato un cinema ad altezza di adolescente che pure riusciva a sviscerare, relegandole nel fuori campo, le contraddizioni di un preciso momento storico. Dall’altro la drammaturgia classica di Kasdan, l’accuratezza della sceneggiatura nel posarsi sul punto di vista di ogni personaggio e la macchina da presa sempre vicinissima al linguaggio del corpo.

“Piccole donne” – Perché no

In Piccole donne tutto “quadra” e tutto è minutamente cesellato e rifinito ad esempio nell’impianto formale, dalla stratificazione spazio-temporale alla fotografia, la colonna sonora di Desplat onnipresente ed enfatica. Un film di figure fin troppo definite che vive delle implicazioni culturali che lo sostengono e delle splendide prove attoriali ma che manca, se non per qualche parentesi (la morte di Beth, il ritorno del padre delle sorelle), di vitalismo e sentimento nella riproposizione della storia di Louisa May Alcott, come se Gerwig si fosse preoccupata di realizzare unicamente il solo e perfetto lavoro di adattamento, per quanto alla fine risulti inappuntabile.

“I migliori anni della nostra vita” e la memoria delle immagini

Lelouch ritorna agli abbracci (e ai selfie) in riva al mare e alle corse, lente, perché nessuno aveva né ha tuttora fretta, in macchina e contro il tempo che sembra andare di pari passo insieme a loro, in un cortocircuito in cui le storie incrociate di Un uomo, una donna rivivono in Trintignant e Aimée che ne vestono i panni sfioriti, mentre il ricordo di Jean-Louis e Anne è lo stesso del film del 1966, nitido come nitida rimane la sequenza in riva al mare nel ricordo dello spettatore. Partire, ricordare, ritornare e riconoscersi; riconoscersi nelle voci dal timbro sempre uguale, nel gesto con cui Anne si sposta i capelli. E nello stesso momento il ricordo (del) cinema trapela nella memoria di Jean-Louis e in quella dello spettatore. I migliori anni della nostra vita rivela che non c’è né potrai mai esserci una fine in queste storie perché continuano a costellare l’immaginario di chi le ha create ed esperite.

“Crash” di David Cronenberg a Venezia Classici 2019

“Mi piacciono tanto le manie. Ne coltivo qualcuna e ne parlo anche, qua e là. Le manie possono aiutare a vivere. Compiango gli uomini che non ne hanno”. Non è difficile pensare a un accostamento, o meglio, a una comunanza di idee e immaginario tra l’autore di quest’affermazione Luis Buñuel e le difformità del cinema di Cronenberg, perché in entrambi è vitale il bisogno di dare forma a tutto il rosario di corpi martirizzati che conosciamo e lo sguardo cinematografico legittima così ciò che fino a ieri era proibito. In Crash, come in Bella di giorno (1967) o Tristana (1970) lo spettatore è ingabbiato nella brutalità di un eros che sconfina nel grottesco e nell’aberrante, in un fuori dall’ordinario che però lo attanaglia. Le ossessioni per le offese corporali di stampo sadiano riecheggiano nelle immagini di Cronenberg e nel feticismo per le carni dilaniate e metalliche di Crash.

Jane Campion, tempesta e impeto

La voce di Ada è un invito a vedere e un invito a perdersi nel marasma neozelandese che è pur sempre un’estensione del proprio patrimonio intimo. Estensione e amplificazione del turbinio di sensazioni che delinea il conturbante di Lezioni di piano e che riporta alla cruda e reale entità del sublime romantico, anche in merito alla dissonanza tra istinto da un lato e prescrizioni sociali dall’altro: “Pensavo che questo paesaggio selvaggio fosse adeguato alla mia storia perché il romanticismo è stato mal compreso dalla nostra epoca, in particolare nel cinema. È diventato qualcosa di grazioso e amabile. Si dimentica la sua violenza, il suo lato oscuro”, ha dichiarato più volte la regista. 

Gabin e Bardot, autenticità disarmanti

Jean Gabin ha incarnato una vastissima gamma di emozioni e sentimenti e Il commissario Maigret ne rappresenta la raggiunta e completa maturità artistica, per un verso. Nell’altro verso c’è un film, contemporaneo a Maigret, piuttosto sfortunato e caduto in disgrazia per un suo voler “osare”, potremmo dire, collocandosi al di là di certi parametri morali, di convenzioni e prassi da adottare nella rappresentazione di personaggi maschili e femminili, da cui lo stesso Gabin, ricordiamolo, fu scandalizzato.  La ragazza del peccato vuole continuare l’opera di denuncia ai valori borghesi iniziata negli anni ’40 e lo fa costellando alcune sequenze di allusioni, guardando alla sensualità dei dettagli e dei corpi. Ma è sulla fisionomia della Bardot che Lara costruisce la sua denuncia: a un certo punto solleva svelta la gonna e propone senza mezzi termini un contratto a Gabin, nel cui gesto, cinico, c’è una specie di candore disarmante. Fresca, sana, placidamente sensuale. Non getta sortilegi, anzi agisce, mettendo sotto scacco un uomo e poi tutta una cultura.

Jean Gabin, tra femmineo e realismo poetico

In effetti, nonostante La vergine scaltra, in cui sembra che i dialoghi rechino l’impronta del sodale di Carné, Jacques Prevert, all’epoca però convalescente, segni una svolta nella carriera stilistica di Carné, l’impressione che si ha guardandolo è che filmi i suoi attori lasciandoli andare, lasciando che la vita svolga il suo corso, dispiegandosi senza una fine definitiva. C’è del realismo in entrambi i film, o anche delle tracce di realismo poetico, se pensiamo al film di Clément, la cui storia è incentrata su un personaggio che rimanda all’idea di eroe tragico, il quale è continuamente destinato a essere sconfitto dal fato. In Le mura di Malapaga emerge inoltre volontà di portare sullo schermo la dura vita del proletariato, considerando il modo in cui viene rappresentata la quotidianità della cameriera Marta e di sua figlia.

“Dall’alto in basso” al Cinema Ritrovato 2019

Dall’alto in basso è una storia collettiva: vi incontriamo Pola, la vicina di Boulla che ne è innamorata, l’avvocato squattrinato\Michel Simon, la signora Binder, un mendicante timido, una cuoca generosa… Si tratta insomma di un film corale, in cui il regista tedesco sfiora stento la fisionomia dell’attore francese, soffermandosi piuttosto sulla figura femminile, Marie, interpretata da una semisconosciuta Jeanine Crispine. Sono l’uno il controcanto dell’altro, Boulla e Marie. Lui all’inizio spavaldamente sicuro di sé e della conquista imminente e lei, d’altra parte, ambiziosa e intransigente, non disposta, soprattutto, a scendere a compromessi di qualsiasi natura per conseguire i suoi obiettivi e desideri.

“Normal” e il campo di battaglia degli immaginari

La Tulli fotografa una realtà per certi versi invisibile o anche abbastanza lontana da chi vive, ad esempio, contesti in cui l’informazione e gli studi sul genere risultano ormai standardizzati. Se da un lato si assiste alla nascita di nuovi ed eterogenei immaginari femministi – recente è l’uscita del manifesto xenofemminista del collettivo Laboria Cuboniks, tradotto da Clara Ciccioni, “antinaturalista” perché contesta i limiti biologici, intersezionale e queer – dall’altro l’aria che si respira è stantia, vecchia e significativa, in questo senso,  è la sequenza in cui un manipolo di donne prossime al matrimonio ascolta i consigli di una signora che sembra piombare direttamente dall’America degli anni ‘50/60, sulla necessità di non lasciarsi andare, prendersi cura del marito, dei bambini, della famiglia.

“Les confins du monde” a Rendez-Vous 2019

Se la letteratura e il cinema aprono come degli spiragli, varchi su storie o spaccati d’esistente non conosciuti, mai esplorati nelle loro verità e contraddizioni, e quindi per lo più lasciate ai margini della Storia, obnubilate dai suoi fantasmi, Les confins du monde incarna proprio questo genere di apertura. Il conflitto di cui Guillaume Nicloux parla è interiore ancora prima che bellico e la guerra in Indocina sembra essere un pretesto, come se la natura, la giungla e vegetazione infide in cui si muovono i soldati ne offuscasse l’orizzonte, smaterializzando anche lo stesso nemico di Tassen, Vo Binh: a vedersi sono soltanto gli esiti delle sue azioni – corpi mozzati, decapitati, vischiosi sulla terra arida, racconti disgustosi sui trattamenti riservati alle vittime – restando la sua una presenza incorporea, quasi mitica.

“Dafne”, una storia resistente

Le intenzioni sono chiare fin dal titolo: Dafne di Federico Bondi è la storia di una donna inscalfibile, con un tetto ma senza legge e deflagrante in ogni momento, preminente davanti alla macchina da presa e alla vita. A interpretarla è Carolina Raspanti; non ha letto il copione perché voleva essere libera, stando a ciò che ha più volte detto l’attrice e in effetti la finzione sembra essersi totalmente adattata, plasmata sul suo vissuto personale: lavora in un supermercato sia nel film che nella vita, dice di amare il suo lavoro, di considerarlo parte costitutiva della sua identità, di sentirsi realizzata creando dal nulla la più piccola parte del prodotto che dovrà vendere cioè le etichette, come asserisce fiera a una sua collega. Davanti alla morte ci si chiede come poter trovare la forza per resistere, per le mille iniziative e gli altrettanti progetti che potrebbero non arrivare a nulla, ma nel vincere la mancanza della madre Dafne è insormontabile.

“Cold War”, convulsione e desiderio

Come nell’andirivieni prospettico de Il bar delle Folies-Bergère di Manet in cui la realtà allo specchio si scompone, rifrangendosi in un vertiginoso complesso di punti di vista, c’è un momento, in Cold War, in cui Zula e Viktor entrano in contatto solo osservandosi e questo graduale disvelarsi del sentimento (e subito della passione) lo vediamo riflettersi in uno specchio: nella folla scrosciante si staglia lei, dal totale si passa a un sostenuto campo – controcampo dove il movimento è rilassato, lento, già però con qualche palpito irrequieto. Attraverso questo stratagemma, Paweł Pawlikowski ci introduce nei cortocircuiti mentali ed emotivi dei protagonisti e nello stesso tempo all’interno del ruolo che l’immagine ha – e a cui adempierà fino all’ultimo momento del film – nella loro messa a fuoco, dovendo renderne tutta la convulsione (“La bellezza sarà convulsa o non sarà…”) e il desiderio emorragici, logori di tutto l’amore consumato.

Speciale “Roma” – parte III

Cuarón infonde ai suoi ricordi un’atmosfera anche spirituale, simbolica, dove a prevalere è il loro muoversi costante e fluido, evocandone familiarità e intimismo; una parentesi altissima in cui ciò che fa parte dell’osservazione del particolare, di un dato unico il regista vuole proiettarlo all’interno di una dimensione universale, globale, facendolo senza ostentazione né pretesa, realizzando, al contrario, una parabola individuale e in un certo senso anche politica, di silente ma consapevole e sentito ritorno alle origini. Di madri e tate che altrettanto silenziosamente ne fanno le veci e il cui dolore è trattato con un distacco inalterabile, come in Cleo che il regista sembra svestire, scoprire attraverso primi piani sospesi sul volto, trapassandone i lineamenti per arrivare nell’intimo

“Still Recording” e la battaglia per il ricordo

Saeed e Ghiath si interrogano proprio su questo ruolo e sulla ormai chiara precarietà della loro posizione nella società, in quanto artisti, riflettendo sul modo in cui l’arte si può definire tale in tempi di guerra e rivoluzione e, implicitamente, anche sull’impatto che la suddetta ha sugli uomini e le donne nella concitazione di questi momenti. E per questo, guardando il loro film, si ha l’impressione di assistere alla simultanea e collettiva realizzazione di un manifesto, generazionale ma soprattutto politico, nella sua accezione più autentica e integra. S’impugna la videocamera contro la battaglia per il ricordo, per mantenere vive identità e memoria, come il poeta che nel Lager ripeteva il XXVI Canto dell’Inferno e lo scrittore che diventa tale esclusivamente per testimoniare: e non far morire lo scrittore, o il cameraman, è l’unica e possibile ragione di vita.

“Girl” e il viaggio incerto dell’eroe

Raccontare la transessualità – come l’omosessualità o anche soltanto la sessualità – al cinema è un po’ come una lama a doppio taglio: il rischio è di scivolare nei cliché, nei toni melodrammatici e svilenti di storie che vorrebbero essere di rivalsa, di rivendicazione d’identità di genere e\o orientamento sessuale, optando per il solito, prevedibile viaggio dell’eroe, con gli altrettanto soliti e prevedibili conflitti e dissidi tra ciò che si è e ciò che l’esterno vuole che uno sia. In opere di questo tipo è come se si sapesse già tutto, come se gli esiti di sviluppo, agnizione e scioglimento siano ormai sedimentati nel fondo delle nostre categorie di percezione e valutazione. Risaputi, intuibili, e perciò freddi, congelati da una sostanziale omogeneità di sguardo, senza dubbio restio ad osare.

“Riot” di Jeffrey Walker a Gender Bender 2018

Dai moti di Stonewall, o dall’uccisione di Harvey Milk nel 1978, sembra ne sia passato di tempo e che si siano fatti progressi nel riconoscere uguaglianza e pari diritti a chi soltanto quarant’anni fa ne veniva brutalmente depredato, spogliato e lasciato così, inerme, ai cigli delle strade. Sembra che la situazione si sia “normalizzata”, in un certo senso. In un certo senso. Ed è proprio per questo margine di dubbio che è bene ritornare su un passato di lotte, resistenza e sangue, anche a costo di calcare la mano, di risultare retorici, di sfidare la consapevolezza di chi guarda con immagini di violenza impensabile, talvolta suggerite, talvolta riportate in tutta loro crudezza e verità, come ha scelto di operare Jeffrey Walker in Riot, trasposizione dei fatti e degli eventi che portarono al primo Mardi Gras di Sydney.