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“Morte a Venezia” di Luchino Visconti a Venezia Classici 2018

Adattare il riverbero costante di parole, pensieri e lucubrazioni di Aschenbach sullo schermo è risolto da Visconti rendendo il protagonista un compositore, anziché scrittore, ed è opinione diffusa che si sia ispirato proprio a Gustav Malher. Due elementi, infatti, concorrono a rendere così elegiaco, struggente e brutale un dissidio prima esperito attraverso le parole: le musiche e il portamento e la mimica di Dirk Bogarde. Malher sublima il percorso di autodistruzione del protagonista fin dalle prime battute del film, e Beethoven risuona in due parentesi distinte ma speculari: sia Tadzio che la prostituta Esmeralda – vista in un flashback – suonano, in solitudine, Für Elise. Momento rivelatorio in uno spazio e un tempo silenziosi e tesi, dalla carica erotica fortissima, una sensualità che Visconti lascia dispiegarsi solo tramite gli sguardi e una gestualità minima.

“Il portiere di notte” a Venezia Classici 2018

Prescindendo per un attimo dall’interpretazione psicanalitica del rapporto inscenato da Charlotte Rampling e Dirk Bogarde, quest’opera, quella per cui la regista – che sarà insignita del Leone d’oro durante la Mostra del Cinema di Venezia – viene quasi sempre ricordata, sonda i limiti di un territorio ormai reso umbratile e sbiadito, distorcendone i limiti e la nostra percezione e creando sullo sfondo dell’Olocausto una vicenda d’erotismo malato e invasato, osando e scandalizzando come la maggior parte dei cineasti di quel periodo. Era il 1974 quando la pellicola uscì nelle sale, l’ombra lunga del Sessantotto, «trasgredire era importante», come affermava Bertolucci e la Cavani si insinua perfettamente in questo raggio d’azione.

“Vox Lux” di Brady Corbet a Venezia 2018

Scandito in tre atti, Vox Lux è un lavoro straniante, complesso, conturbante a livello visivo e di concatenazione di spazi, tempi e trame che si rifrangono, confermando l’eccezionalità e, soprattutto, le cifre autoriali e stilistiche di un cineasta al suo solo secondo lungometraggio.  Lungo tutto il corso del film, si respira aria di inquietudine e ansia, mentre i ritmi frenetici dei nostri giorni invadono inesorabili il secondo atto. Corbet fonde dramma psicologico e universale, in un vortice irrefrenabile e potentissimo di immagini “spettacolari”, dove a intrecciarsi sono anche i meccanismi della violenza, le sue cause e i suoi effetti, insinuando, in questo modo, una riflessione sull’essenza stessa della cultura pop  oggigiorno

“Peterloo” di Mike Leigh a Venezia 2018

Leigh realizza un ritratto rigoroso, quanto più oggettivo possibile e limpido di un determinato spaccato sociale, quello di un paese ai prodromi di cambiamenti e rivolte e di un’umanità alle dipendenze di un potere sazio e consunto; tra la monumentalità e lo splendore formale che contraddistingue anche Turner e una sceneggiatura tesa ad approfondire ogni singolo aspetto della vita di quel secolo e tutti i momenti preparatori alla manifestazione, riunioni e innumerevoli assemblee sia di uomini che donne, emerge anche un altro aspetto: la celebrazione della forza della conoscenza (preminente la fondazione del The Guardian) e, soprattutto, della presa di consapevolezza della propria condizione, in quel caso di subordinazione, per sovvertirla, e affermarsi in quanto individui.

“I fratelli Sisters” di Jacques Audiard

Che I fratelli Sisters sia un western piuttosto atipico e anticonvenzionale lo si capisce fin dai primi scambi di battute dei protagonisti, dalla quotidianità naif in cui sono calati e che il regista di Dheepan – Una nuova vita segue con particolare riguardo e ironia, libero di definire il genere con una sua specifica impronta, una cifra di stile prettamente francese, potremmo dire, per quanto riguarda l’insistenza sulla psicologia dei protagonisti e della loro crescita, con uno sguardo maggiormente intimistico sulla natura delle relazioni umane.  E il western viene depredato della sua epica mitologia specialmente nella caratterizzazione di questi due fratelli, due personaggi “di genere” completamente reinventati, spogliati di quell’eroismo incondizionato che distingue cowboy e pistoleri ineccepibili e resi, in un certo qual modo, anche più umani.

Venezia 2018: “Suspiria” di Luca Guadagnino

Con la danza, il corpo emana vitalità ed energia senza eguali, pulsioni e muscoli che si distendono e contraggono in solitudine o durante un pas de deux, oppure, ancora di più, nella coralità di una coreografia di insieme, in cui l’interpretazione delle singole variazioni cresce e si consuma all’interno di sé ed è, quindi, personale, quasi privata, ma nel contempo funzionale a renderne l’architettura generale: una dialettica di anime e corpi che si sfregano gli uni contro gli altri, incontrandosi e scontrandosi, amandosi e ferendosi. E questo il coreografo di Suspiria lo sa benissimo, poiché, del remake del capolavoro argentiano diretto da Luca Guadagnino, strega il lavoro compiuto sui corpi e sull’essenza stessa del movimento, quando ci si avvicina a un tal genere di espressione dell’io.

Venezia 2018: “Doubles vies” di Olivier Assayas

Si chiama non-fiction novel, ed è un romanzo che mette in scena avvenimenti accaduti realmente, come quello del protagonista di Doubles vies – il cui titolo inglese è, non per caso, Non Fiction -, scrittore parigino con serie difficoltà ad accorgersi della distanza tra la vita e la letteratura e che trova, dunque, nell’intreccio tra realtà e irrealtà, una matassa difficilissima, quasi impossibile da districare. In questo andirivieni, tanto lo scrittore quanto il regista giocano con dei meccanismi particolari e complessi, in cui non è detto che si riesca sempre a stabilire una netta linea di demarcazione tra il campo degli eventi e quello delle commistioni care alla fiction. Assayas e il suo scrittore sono due figure che, in questo senso, si compenetrano e confondono, tanto che la riflessione sulla crisi del mercato editoriale in seguito all’apporto del digitale sembra un pretesto per alludere ai non dissimili cambiamenti che il cinema sta attraversando in questo frangente sociale e culturale.

“Mishima”: Paul Schrader e le ispirazioni pittoriche

Osservando il San Sebastiano di Guido Reni, sembra che le frecce conficcate sul corpo vergine del martire vi siano poste in realtà per ornamento e decoro, quasi non volessero rovinare col sangue la levigatezza della sua pelle, restando così quiete e delicate in un momento in cui alla sofferenza si sostituisce il piacere e al dolore l’estasi. Trattandosi di un trapasso fulmineo, il confine tra queste due condizioni è impercettibile e gli stati d’animo s’intersecano, rendendo difficile classificare il tipo di rappresentazione: distante dalle raffigurazioni passate, l’iconografia del Reni rende l’ambiguità di quest’anima ancorata alla terra e l’impeto soprasensibile del suo sguardo, ispirando una quantità innumerevole di artisti e letterati. Yukio Mishima è uno di questi, dimostrando il carattere anticonvenzionale del suo rapporto con l’arte e la vita – tra cui cercherà sempre di trovare un’armonia – fin dal suo primo incontro con l’opera del pittore bolognese.

” L’île de Mai” di Kebadian e Andrieu al Cinema Ritrovato 2018

La rivolta operaia e giovanile imperversava nelle strade e l’occhio della macchina da presa di Kebadian e Andrieu l’ha inquadrata non perdendosi alcun dettaglio e afflato, andando a esplorarne le dinamiche dall’interno, tra le infinite assemblee prima delle occupazioni e manifestazioni, seguendo la sensazione di vivere una particolare rivoluzione d’ottobre, stando alle parole appassionate di Kebadian. L’occupazione della Sorbona è stato senza dubbio uno dei momenti di maggiore concitazione, filmato dai due registi “come se fosse un sogno”, con la loro cinepresa che era lì, davanti agli studenti in corsa e alle barricate durante le caldissime notti di maggio.

“Terza liceo” di Luciano Emmer al Cinema Ritrovato 2018

Terza liceo è un documento della società dell’epoca senza l’aspirazione di volerlo essere, lo scanzonato racconto della quotidianità di questi giovani che si affacciano alla vita, con un tale attenzione verso il progredire dei sentimenti – o viceversa –, le vicende scolastiche, l’ansia prima delle interrogazioni e le tenzoni amorose che il fare caso al dettaglio diverrà una vera e propria cifra di stile per Emmer che non trascurerà neanche nei documentari d’arte. Il liceo è qui momento di transizione, un limbo che sembra più un sogno, l’ultimo, antistante la realtà reso dal bianco e nero traslucido e granuloso della fotografia di Mario Bava.

“Cronaca familiare” di Valerio Zurlini al Cinema Ritrovato 2018

Esprimere il massimo della vitalità e dell’entusiasmo morendo, legati a un letto di contenzione: è la condizione che lega inscindibilmente l’Ettore pasoliniano di Mamma Roma e Lorenzo, quell’uomo ancora bambino che esala l’ultimo respiro conservando i tratti dell’ingenua e tenera fanciullezza che Valerio Zurlini racconta in Cronaca familiare. A loro modo, sullo sfondo di due vicende che prenderanno poi le pieghe del dramma familiare e psicologico, Pasolini e Zurlini riportano sullo schermo l’indigenza e le ristrettezze fisiche e morali a cui dovevano far fronte le classi meno abbienti nel dopo guerra, il rifiuto e poi la necessità del compromesso e l’isolamento che segue alla mancanza di prospettive e risorse; se, da un lato, è come se il poeta friulano planasse sulla tragicità della storia senza macigni sul cuore, con una leggerezza che lascia spazio a parentesi umoristiche e di una tenuità che stemperano l’atmosfera di fondo – e Anna Magnani ne è la protagonista – non c’è nulla che, in Zurlini, ne addolcisca i toni o smussi gli angoli.

Due o tre cose che so di lei: dialogo con Marina Vlady al Cinema Ritrovato 2018

Tra un Godard perduto e ritrovato – e alla fine rifiutato – e la fascinazione esercitata da Marlon Brando sulla piccola Vlady, ci si domanda come possano essere stati possibili tutti questi amori, ma la risposta dell’attrice è magnetica, unica, squisitamente francese: “C’est la vie”. Leggera e disinibita, la divoratrice Ape regina fa inoltre parte di quel manipolo di attrici che nel 1971 firmarono un manifesto a favore dell’aborto: artista, scrittrice e inamovibile femminista, Marina Vlady, improvvisando negli sguardi, nelle risate e nel pianto, ha recitato la gioventù, la grazia e l’ambiguità, affermandosi come una delle più iconiche e seducenti personalità artistiche del panorama internazionale, dagli anni ’50 ad oggi.

“Les garçons sauvages” al Future Film Festival 2018

Delirante, immaginifico e dissacrante, Les garçons sauvages è costruito magistralmente: dalla definizione psichica dei personaggi al montaggio, nei passaggi dal bianco e nero al colore e nell’uso di un sonoro eclettico e quanto più vario possibile, dal classico al pop coevo passando per Nora Orlandi. Nelle traslucide sequenze sottomarine Mandico rivelerà poi tutto il suo amore per Jean Vigo, con brevi parentesi in cui uno dei protagonisti sembra quasi imitare l’espressione trasognata di Jean Dasté. Un risultato galvanizzante. Tra le allucinazioni cinematografiche (e cinefile) più belle viste al cinema quest’anno.

“La storia della principessa splendente” al Future Film Festival 2018

Al suo ultimo film, Isao Takahata firma la sua cosmicomica. Strabiliante il momento in cui la Principessa Splendente fa ritorno sulla Luna e viene evidenziato il progressivo venir meno del colore del volto acquisito sulla Terra; il bianco come colore dell’assenza e della nostalgia che attraversa tutta la pellicola. Kaguya è per natura una nebulosa, ma l’unico amore lo nutre per quei due amabili esseri umani che l’hanno cresciuta e verso cui rivolgerà un ultimo, straziante sguardo prima di confondersi nell’indeterminatezza lunare, di perdere quell’ “io” che la Terra le aveva restituito.

“Big Fish and Begonia” al Future Film Festival 2018

Fin dalla voce fuori campo iniziale – che accompagnerà lo spettatore nel corso di tutto il film – Big Fish and Begonia diventa un’esperienza, un percorso iniziatico, filosofico e spirituale che magnetizza l’attenzione di chi guarda tanto per l’incalzare continuo della vicenda quanto per la complessità dei concetti trattati, anche implicitamente: c’è innanzitutto dell’epica in questa storia, il peso dell’anima, il sacrificio individuale per un bene più grande, il bisogno di prender parte a qualcosa e il senso dell’avventura, la cosiddetta curiositas odissiaca e quello slancio immaginifico e trascendentale che contraddistingue molta produzione artistica orientale, unito alla necessità di ricongiungersi all’elemento naturale, motore universale.

“Love Disease” all’Asian Film Festival 2018

Il taglio che il cineasta giapponese dà alla storia è abbastanza particolare, alternando momenti di quiete e pacatezza con altri più cruenti, forti e anche disturbanti, a tratti, come la scena in cui Emiko sottomette in pubblico il ragazzo adescato nella chat online, costringendolo a mettersi a quattro zampe e a leccarle i piedi, in pubblico.  Love Disease è un’opera nuda e cruda, una parentesi impietosa sulla brutalità di un determinato spaccato sociale, con una sequenza finale montata magistralmente, mostrando, in un certo qualche modo, due diverse declinazioni della violenza e un’inquadratura conclusiva che fa da controparte all’inizio del film nel binomio vita-morte che lo attraversa integralmente.

“Mothers” all’Asian Film Festival 2018

Particolarmente interessante, in Mothers, è la necessità di divincolarsi da determinate categorie per costruire una storia che sappia leggere i legami familiari anche andando oltre i semplici legami di sangue, vagliando quantità di possibilità infinite tanto per la donna quanto per il figlio. Il regista dichiara implicitamente l’assunto in base al quale la famiglia non ha niente a che fare con un legame meramente biologico, quanto solo amoroso, affettivo. E lo dimostra attraverso la freddezza della messa in scena e una vuotezza scenografica che fanno correlativo – oggettivo agli stati d’animo dei protagonisti; un film dal gelo quasi documentario che, tuttavia, riesce a smuovere la coscienza di chi guarda. 

“Dogman” e la solitudine come separazione

In questo Dogman di Matteo Garrone, parabola di calore canino più che umano e isolamento, rabbia e desolazione, c’è qualcosa di terribilmente umano, tragico e delicato, angoscioso e umoristico. Non si tratta di suggestioni immediate, sono piuttosto la carne, il corpo mutilato e il volto esangue di Marcello Fonte a suggerircele, a formulare la disperata richiesta di aiuto e ascolto di un reietto; perché, d’altra parte, il suo status sarà questo, rimarrà immutato, qualsiasi cosa avrà intenzione di fare per redimersi. Spettatore inerme delle ferite inflittegli dagli altri (e alla fine da sé stesso), Marcello è un outsider dall’aria trasognata e a tratti comica, vive la periferia della Magliana ma, nel contempo, ne è fuori; non prende parola durante gli incontri con i negozianti del quartiere, collocandosi sempre un passo indietro, uno sguardo indietro. Legge i risvolti della realtà a partire da una posizione privilegiata, quella di prende le distanze da ciò che è per comprenderlo, o forse semplicemente osservarlo.

“Doppio amore” e l’incarnazione del desiderio

Marine Vacth è l’incarnazione del desiderio. Lo è da sempre, per François Ozon; per cui tutto ruota intorno al corpo e alla corporeità, fin dalla timida e inquieta ripresa iniziale di Giovane e bella, seguendola su una spiaggia in riva al mare come Rohmer in La collezionista e in cui è il fratellino a osservarla da lontano, per poi spostarsi e affacciarsi guardingo sulla soglia della sua camera da letto. Un ruolo, quello di Isabelle, che sembra appositamente costruito sulla sinuosità delle forme della Vacth, sul taglio spigoloso del suo volto e uno sguardo carico di delicata lascivia, quasi angelica, divina. Frigida e sensuale come la Deneuve tra Repulsion e Buñuel, è come se Isabelle interpretasse la parabola di una meno nota “eroina” moraviana, la Desideria – non a caso – di La vita interiore, uno dei romanzi più sovversivi dello scrittore romano, inusuale ed estrema, per il periodo storico-culturale, gli anni ’70, ma sottilissima analisi dell’erotismo femminile.

Una donna spezzata, tra Cléo e Nanà

Sincerità e trasparenza di sguardo sono caratteristiche che contraddistinguono la Nouvelle Vague e specialmente cinema di Agnès Varda, da Clèo dalle 5 alle 7 alla disinibita Sandrine Bonnaire in Senza tetto né legge, fino alla sua ultima dichiarazione d’amore al cinema e alla vita che diventano un tutt’uno. Visages, villages, un’opera la cui ragion d’essere sta nel potere di un’immaginazione che spazia nel passato, presente e futuro, da Godard o dal ritratto dell’amico Guy ai piedini di Agnes incollati sul treno e destinati a raggiungere chissà quale village remoto, facendo sì che la fantasia vada dove la corporeità non può spingersi.