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Janet Leigh attraverso lo specchio americano fra “Atto di violenza” e “L’infernale Quinlan”

Esattamente dieci anni separano i due film con protagonista Janet Leigh. Atto di violenza (1948) appartiene ancora alla stagione iniziale del noir. L’infernale Quinlan (1958)  di Orson Welles, è spesso identificato come il film che ne chiude il ciclo. Nonostante la distanza, le interpretazioni di Leigh (che stanno come fermalibri ai due capi del noir) sono legate da più di un’assonanza, facendo dell’attrice un elemento sottovalutato di quella che in entrambi i casi è la dissolvenza al nero dei valori in cui si identificano gli Usa di allora.

“Fase IV: distruzione Terra” e la fantascienza non-umana

In 2001: Odissea nello spazio l’elemento umano decade in favore del non-umano, inteso nelle due accezioni difficilmente distinguibili dell’animale (prima) e della macchina (poi). Fase IV è un film d’autore (da dentro e attraverso il genere) che prende sul serio la sfida kubrickiana di un cinema in grado di fare a meno dell’umano, di cui si investigano i prodromi (dawn of man) e gli esiti tecnologici futuribili, ma si bypassa totalmente qualunque fase umanista intermedia.

“Parthenope” come opera-leviatano tra Napoli e il mondo

Se È stata la mano di Dio (2021) offriva allo spettatore una Napoli “vissuta da dentro”, filtrata dalla lente autobiografica alla maniera del suo nume Fellini, Parthenope torna sugli stessi temi con uno sguardo diverso, meno intimo ed estremamente più ambizioso. L’impressione è che stavolta Sorrentino miri (quasi melvillianamente) a scrivere il Grande romanzo della città, l’opera-leviatano in grado di esaurire un argomento contenendo in sé tutto il mondo, o almeno quel “mondo” che è Napoli.

“The Shrouds” e il lutto cronenberghiano

Morto un Cronenberg non se ne fa un altro. Ancora oggi The Shrouds mette sul tavolo un’idea inedita, forse una sola, ma di una potenza tale che parlare di cinema diventa riduttivo: qui si parla di frontiere della visione, della capacità di ragionare sulle fasi dell’esistenza umana in modo ferocemente originale. Non esiste da nessuna parte – di sicuro nel cinema “occidentale” – uno sguardo sul lutto, la morte, la sepoltura che somigli a quello di The Shrouds.

“Challengers” speciale II – Epicureo, vitalistico, estatico

Come sempre il miglior talento di Guadagnino resta quello di un raffinato pornografo, capace di rendere sensuali non solo i corpi dei suoi attori ma anche cibi, paesaggi, vestiario. Da questo dipende la sua affinità così spiccata col mondo dello spot e della pubblicità, dov’è fondamentale il concetto di sex up. Stavolta però – come già in parte in Chiamami col tuo nome – a emergere è la forza poetica latente in questo eccitamento, quella di un vero e proprio inno estatico e vitalistico alla liberazione dei sensi.

Il potere grottesco tra “Napoleon” e “Blade Runner”

E se vi dicessimo che Napoleone appariva in Blade Runner? Nell’antro di J.F. Sebastian, nella scena in cui questi rincasa insieme a Pris, vengono ad accoglierli alla porta due creazioni dell’inventore: due pupazzi in alta uniforme vestiti come il Kaiser Guglielmo e, appunto, Napoleone. Un Napoleone un po’ buffo un po’ inquietante, che trotterella emettendo strani versi, parodia del Potere e fantoccio tragico di un mondo in cui tutto è replicante, spossessato del proprio destino e della propria soggettività.

“Killers of the Flower Moon” speciale III – Gangs of Oklahoma

Nel raccontare l’ennesima discesa agli inferi del Sogno americano, stavolta Scorsese sembra volersi smarcare da qualsiasi malriposto senso di idolatria. Killers of the Flower Moon unisce infatti due fili conduttori della sua opera: da un lato la seduzione del male tipica dei suoi film gangster (ma anche di un Goodfellas sotto mentite spoglie come The Wolf of Wall Street, 2013); dall’altra l’interesse storico, sempre attraversato da una decisa vena morale e spirituale, di film come Kundun (1997) e Silence (2016).

“Asteroid City” speciale II – La prigione del ventriloquo

L’Anderson 2.0 degli ultimi anni è un animale diverso. Non più il creatore di personaggi sognanti persi in mondi immaginari, in cui poteva immedesimarsi lo spettatore ugualmente imbevuto di cultura pop degli anni Novanta e Duemila. Più sottilmente, il creatore di universi dumpster del narrativo (come la discarica di L’isola dei cani) dove gli elementi del pop, di Hollywood, dell’emozione cinematografica ci sono tutti, ma non fanno esattamente il loro lavoro.

Conversazione con Joe Dante

Finalmente è successo: Joe Dante è a Bologna per Il Cinema Ritrovato: “Tanti film degli anni Ottanta hanno avuto un grosso impatto, sono diventati classici magari grazie all’home video e sono stati tramandati alle generazioni successive. Gremlins è uno di questi. In un certo senso è il film che mi rappresenta, quello a cui è immediatamente associato il mio nome, e di certo cercai di metterci quanto più possibile della mia personalità. Ma sono più legato al secondo, che sento più mio”.

Jekyll e Hyde pozione e antidoto

È questa forma sofisticata di moralismo dell’immagine, questo suo essere insieme “pozione e antidoto”, a fare del film un’opera così lucida, capace di complicare e denunciare gli impulsi socio-politici che la attraversano: dietro lo spirito caritatevole e anti-classista di Jekyll, che manca una cena di gala per curare una signora dei quartieri bassi, si nasconde forse il disprezzo predatorio di tanta aristocrazia? E che dire del ruolo della donna, di volta in volta schizofrenicamente oggetto sessuale e poi invece adorabile sposina o vittima degna di empatia?

“Cry, the Beloved Country” e la coscienza pulita

Cry, the Beloved Country si distacca nettamente dal cinema e dalla cultura contemporanei nel contenuto ideologico, in particolare nella modernità e prescienza della sua critica al problema razziale sudafricano. Ma anche questo a ben vedere ha ragioni ben precise nel contesto storico di quel “cinema senza frontiere”. È ampiamente documentato infatti come, a seguito delle purghe maccartiste, molti degli artisti hollywoodiani politicamente più a sinistra diventino in quel periodo veri e propri professionisti internazionali, disposti a valicare l’Atlantico per prestare i propri servigi nel più accogliente panorama europeo.

La saga aliena oltre la filosofia del fantahorror

Tornano in sala per tre giorni Alien e Aliens – Scontro finale, distribuiti da Lucky Red. Per omaggiare questi due capisaldi della fantascienza dedichiamo qualche riflessione alla saga che hanno inaugurato, fra le più originali e influenti nella storia del genere. Essa rappresenta un grande esempio di fantascienza in grado di proporre un mix di estrema verosimiglianza scenografica e riflessione su temi filosofici, sociologici e tecnologici.

“Babylon” speciale I – La cinefobia di Damien Chazelle

Se c’è un autore contemporaneo la cui visione sembra informata da un’idea gerarchica dell’arte, quello è Damien Chazelle. Sì, ma quale arte? Non possono essere tutte uguali. E infatti il corollario di questa missione monastica (arrogante e classista) è la netta delimitazione fra veri artisti e – in formazione – “deboli”, “venduti”, “ignoranti”, nonché fra arti maggiori e arti minori. In Babylon questa visione approda con coerenza a una concezione che viene da definire cinefoba.

Elvis Special – Il godimento della colpa

Come dice il Colonnello, l’attrazione più grande è quella che ci fa sentire in colpa nel momento stesso in cui ne godiamo. Motto che potrebbe valere per tutta l’opera di Luhrmann, il cui sfrenato postmodernismo camp ha continuamente flirtato con l’eccesso, l’ostentazione superficiale e il cattivo gusto. Intanto proprio la figura di Parker, il grande illusionista che lancia e poi distrugge Elvis, consente al regista di ritagliarsi uno spazio per riflettere wellesianamente (citazioni a Quarto potere, La signora di Shanghai, F for Fake) sul potere ambiguo dello spettacolo, sul legame faustiano fra arte e profitto.

“Blues Brothers” film metafisico

Più che al “blues” strettamente inteso infatti, l’omaggio di Landis & Co è all’intero albero genealogico della musica black: accanto alle dodici battute (John Lee Hooker) troviamo jazz (Cab Calloway), rock n’ roll (il nomadismo razziale di Elvis) e soprattutto soul (Brown, Charles, Franklin), genere per eccellenza ricollegato alle matrici religiose del Gospel. Accanto al suo inarrivabile impianto comico-satirico, è proprio la capacità di Blues Brothers di implementare la forza di queste prediche fra sacro e profano a farne un’opera politica trascinante. Un’autentica vocazione, gridata ex pulpito in forma di canzone, all’impegno sociale e al multiculturalismo.

“Picnic a Hanging Rock” tra esistenzialismo e horror

Alle atmosfere sospese e allucinate (in inglese diremmo eerie) della prosa di Lindsay, il giovane regista arriva coi mezzi puramente filmici che gli mette a disposizione la cultura cinematografica del suo tempo: da un lato l’esistenzialismo “opaco” e l’abbandono della narrazione lineare tipici di un certo modernismo europeo alla Antonioni; dall’altro l’aggressione sensoriale – colonna sonora prog/sinfonica, montaggio forsennato, continue dissolvenze – dell’horror in voga a metà anni Settanta, Dario Argento su tutti. Il risultato è arty e inquietante. 

“Blind Husbands”: l’esordio di un autore che tutti amavano odiare

L’esordio alla regia di Erich von Stroheim ottenne uno straordinario successo di pubblico, e resta l’unico film che l’autore riuscì a completare secondo la propria volontà. Ma è facile vedere le prime increspature dietro la superficie luminosa dei suoi scenari alpini. Ansioso di mettere a frutto l’attenzione maniacale per il dettaglio assorbita sui set di maestri come Griffith, Stroheim andava già trasformandosi nell’uomo che i produttori (e non solo il pubblico) avrebbero amato odiare, un talento tanto insostituibile quanto ingestibile e straripante.

“Gli invasori spaziali” e la fantascienza in giardino

Come per L’invasione degli Ultracorpi (1956), la messa su schermo di queste paure dovute alla guerra fredda, alla minaccia atomica, all’esasperato riflusso familista e suburbano del secondo dopoguerra, può essere letta paradossalmente come involontario atto di denuncia di quello stesso contesto culturale isterico. Fumettone del tutto privo della geniale costruzione orrorifica del film di Siegel, Invaders risulta comunque interessante in questo senso per il contrasto straniante – da melodramma alla Sirk o Ray – fra la crisi sociale ritratta e la sua confezione sgargiante, lussuosa per quanto lo permette il budget.

“Crime and Punishment” al Cinema Ritrovato 2022

Oggi Crime and Punishment incuriosisce soprattutto per aver segnato l’incontro (e un importante punto di passaggio) nelle carriere di Josef von Sternberg e Peter Lorre. In questo risiedono insieme il suo maggior interesse e un certo motivo di delusione, perché da due personalità simili non esce più che un solido melodramma a tinte non abbastanza fosche, che non prova neanche a lambire l’introspezione dostoevskiana, ma si accontenta di anestetizzarne gli aspetti più estremi per cautela nei confronti della censura.

“Topkapi”: ossessioni e illusioni di un’epoca

Istanbul. Due super-ladri progettano il colpo del secolo: introdursi al museo del Palazzo Topkapi e rubare il pugnale del sultano Mehmet I, sulla cui elsa sono incastonati i tre smeraldi più preziosi al mondo. Per eludere il servizio di sicurezza assemblano una banda di dilettanti dotati di straordinarie abilità. Ci sono un forzuto tedesco, un acrobata italiano, un misterioso gentiluomo inglese e un ambulante anglo-egiziano dal passato torbido. Solo i primi anni Sessanta avrebbero potuto partorire un film come Topkapi