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Conversazione con Joe Dante

Finalmente è successo: Joe Dante è a Bologna per Il Cinema Ritrovato: “Tanti film degli anni Ottanta hanno avuto un grosso impatto, sono diventati classici magari grazie all’home video e sono stati tramandati alle generazioni successive. Gremlins è uno di questi. In un certo senso è il film che mi rappresenta, quello a cui è immediatamente associato il mio nome, e di certo cercai di metterci quanto più possibile della mia personalità. Ma sono più legato al secondo, che sento più mio”.

Jekyll e Hyde pozione e antidoto

È questa forma sofisticata di moralismo dell’immagine, questo suo essere insieme “pozione e antidoto”, a fare del film un’opera così lucida, capace di complicare e denunciare gli impulsi socio-politici che la attraversano: dietro lo spirito caritatevole e anti-classista di Jekyll, che manca una cena di gala per curare una signora dei quartieri bassi, si nasconde forse il disprezzo predatorio di tanta aristocrazia? E che dire del ruolo della donna, di volta in volta schizofrenicamente oggetto sessuale e poi invece adorabile sposina o vittima degna di empatia?

“Cry, the Beloved Country” e la coscienza pulita

Cry, the Beloved Country si distacca nettamente dal cinema e dalla cultura contemporanei nel contenuto ideologico, in particolare nella modernità e prescienza della sua critica al problema razziale sudafricano. Ma anche questo a ben vedere ha ragioni ben precise nel contesto storico di quel “cinema senza frontiere”. È ampiamente documentato infatti come, a seguito delle purghe maccartiste, molti degli artisti hollywoodiani politicamente più a sinistra diventino in quel periodo veri e propri professionisti internazionali, disposti a valicare l’Atlantico per prestare i propri servigi nel più accogliente panorama europeo.

La saga aliena oltre la filosofia del fantahorror

Tornano in sala per tre giorni Alien e Aliens – Scontro finale, distribuiti da Lucky Red. Per omaggiare questi due capisaldi della fantascienza dedichiamo qualche riflessione alla saga che hanno inaugurato, fra le più originali e influenti nella storia del genere. Essa rappresenta un grande esempio di fantascienza in grado di proporre un mix di estrema verosimiglianza scenografica e riflessione su temi filosofici, sociologici e tecnologici.

“Babylon” speciale I – La cinefobia di Damien Chazelle

Se c’è un autore contemporaneo la cui visione sembra informata da un’idea gerarchica dell’arte, quello è Damien Chazelle. Sì, ma quale arte? Non possono essere tutte uguali. E infatti il corollario di questa missione monastica (arrogante e classista) è la netta delimitazione fra veri artisti e – in formazione – “deboli”, “venduti”, “ignoranti”, nonché fra arti maggiori e arti minori. In Babylon questa visione approda con coerenza a una concezione che viene da definire cinefoba.

Elvis Special – Il godimento della colpa

Come dice il Colonnello, l’attrazione più grande è quella che ci fa sentire in colpa nel momento stesso in cui ne godiamo. Motto che potrebbe valere per tutta l’opera di Luhrmann, il cui sfrenato postmodernismo camp ha continuamente flirtato con l’eccesso, l’ostentazione superficiale e il cattivo gusto. Intanto proprio la figura di Parker, il grande illusionista che lancia e poi distrugge Elvis, consente al regista di ritagliarsi uno spazio per riflettere wellesianamente (citazioni a Quarto potere, La signora di Shanghai, F for Fake) sul potere ambiguo dello spettacolo, sul legame faustiano fra arte e profitto.

“Blues Brothers” film metafisico

Più che al “blues” strettamente inteso infatti, l’omaggio di Landis & Co è all’intero albero genealogico della musica black: accanto alle dodici battute (John Lee Hooker) troviamo jazz (Cab Calloway), rock n’ roll (il nomadismo razziale di Elvis) e soprattutto soul (Brown, Charles, Franklin), genere per eccellenza ricollegato alle matrici religiose del Gospel. Accanto al suo inarrivabile impianto comico-satirico, è proprio la capacità di Blues Brothers di implementare la forza di queste prediche fra sacro e profano a farne un’opera politica trascinante. Un’autentica vocazione, gridata ex pulpito in forma di canzone, all’impegno sociale e al multiculturalismo.

“Picnic a Hanging Rock” tra esistenzialismo e horror

Alle atmosfere sospese e allucinate (in inglese diremmo eerie) della prosa di Lindsay, il giovane regista arriva coi mezzi puramente filmici che gli mette a disposizione la cultura cinematografica del suo tempo: da un lato l’esistenzialismo “opaco” e l’abbandono della narrazione lineare tipici di un certo modernismo europeo alla Antonioni; dall’altro l’aggressione sensoriale – colonna sonora prog/sinfonica, montaggio forsennato, continue dissolvenze – dell’horror in voga a metà anni Settanta, Dario Argento su tutti. Il risultato è arty e inquietante. 

“Blind Husbands”: l’esordio di un autore che tutti amavano odiare

L’esordio alla regia di Erich von Stroheim ottenne uno straordinario successo di pubblico, e resta l’unico film che l’autore riuscì a completare secondo la propria volontà. Ma è facile vedere le prime increspature dietro la superficie luminosa dei suoi scenari alpini. Ansioso di mettere a frutto l’attenzione maniacale per il dettaglio assorbita sui set di maestri come Griffith, Stroheim andava già trasformandosi nell’uomo che i produttori (e non solo il pubblico) avrebbero amato odiare, un talento tanto insostituibile quanto ingestibile e straripante.

“Gli invasori spaziali” e la fantascienza in giardino

Come per L’invasione degli Ultracorpi (1956), la messa su schermo di queste paure dovute alla guerra fredda, alla minaccia atomica, all’esasperato riflusso familista e suburbano del secondo dopoguerra, può essere letta paradossalmente come involontario atto di denuncia di quello stesso contesto culturale isterico. Fumettone del tutto privo della geniale costruzione orrorifica del film di Siegel, Invaders risulta comunque interessante in questo senso per il contrasto straniante – da melodramma alla Sirk o Ray – fra la crisi sociale ritratta e la sua confezione sgargiante, lussuosa per quanto lo permette il budget.

“Crime and Punishment” al Cinema Ritrovato 2022

Oggi Crime and Punishment incuriosisce soprattutto per aver segnato l’incontro (e un importante punto di passaggio) nelle carriere di Josef von Sternberg e Peter Lorre. In questo risiedono insieme il suo maggior interesse e un certo motivo di delusione, perché da due personalità simili non esce più che un solido melodramma a tinte non abbastanza fosche, che non prova neanche a lambire l’introspezione dostoevskiana, ma si accontenta di anestetizzarne gli aspetti più estremi per cautela nei confronti della censura.

“Topkapi”: ossessioni e illusioni di un’epoca

Istanbul. Due super-ladri progettano il colpo del secolo: introdursi al museo del Palazzo Topkapi e rubare il pugnale del sultano Mehmet I, sulla cui elsa sono incastonati i tre smeraldi più preziosi al mondo. Per eludere il servizio di sicurezza assemblano una banda di dilettanti dotati di straordinarie abilità. Ci sono un forzuto tedesco, un acrobata italiano, un misterioso gentiluomo inglese e un ambulante anglo-egiziano dal passato torbido. Solo i primi anni Sessanta avrebbero potuto partorire un film come Topkapi

“The Northman” e la fotografia (dell’immaginario) di oggi

Si può ammirare The Northman per la capacità di iniettare in un revenge movie norreno le qualità migliori del regista, dal puntiglio antropologico al senso pittorico per la messa in scena della violenza; o si può, come chi scrive, ritenere che le esigenze del genere e quelle dell’Eggers-pensiero non trovino quasi mai una sintesi davvero efficace, fallendo specialmente nel tentativo di conciliare la compiaciuta bidimensionalità mitologica del secondo con l’impulso delle grandi narrazioni hollywoodiane verso la psicologia e il character building

“Red Rocket” e la disillusione dell’altra America

Per quanto disillusa, l’America descritta da Baker resta prigioniera di una “coazione a sognare” veicolata dall’urbanistica, dal cinema, dalla tv-spazzatura, che la rende vulnerabile a tentativi di corruzione dall’esterno. Non a caso è frequente il tema dello sfruttamento sessuale e ancor più quello della pedofilia (le scene di adescamento). In un’unica gigantesca messa in scena del detto “non accettare caramelle dagli sconosciuti”, il grooming si fa metafora universale delle insidie tese a una provincia sperduta e bambina da un paese falsamente camuffato da bomboniera, popolato da coloratissime gelaterie e negozi di ciambelle sul cui sfondo fumano le ciminiere di scenari industriali da incubo.

“No Time to Die” manifesto radicale per il futuro di 007

In questo frangente storico e momento di chiusura di un cerchio, il personaggio ha acquistato un’interiorità e un profilo biografico, concedendosi ironici ammiccamenti queer, ma soprattutto il lusso ben poco “maschio” (nel senso lupesco dei predecessori) di amare. Su queste nuove fondamenta costruisce la sceneggiatura degli inossidabili Purvis e Wade coadiuvati dallo humour di Phoebe Waller-Bridge, solidissima come tutto il film ma a forte rischio di scontentare quella parte di fandom già incrinata dagli ultimi sviluppi umanizzanti. No Time to Die è lo 007 più corale di tutti i tempi, con James come cuore pulsante di personaggi che da segni di stile si fanno forse per la prima volta compiutamente rete sociale/affettiva.

“Dune” come mappa contemporanea del cinema di fantascienza

Il nuovo Dune non costituisce affatto un mero ripiegamento della fantascienza mainstream su logiche televisive, ma è al contrario un film che può e vuole rimettere sulla mappa contemporanea – quella mappa dai confini sfumati dove grande e piccolo schermo si avvicendano su terreno via via più comune – un’idea di messa in scena cinematografica radicale, ponderosa e dal grande impatto audiovisivo, capace contemporaneamente di mettere il dito su questioni sociopolitiche di scottante attualità e di farsi come in passato veicolo di grandi narrazioni. Mai come ora il successo non è assicurato. Mai come ora è necessario, giusto, auspicabile. 

“The Last Duel” spietato affresco di indistinzione morale

The Last Duel utilizza la violenza per dipingere uno spietato affresco di indistinzione morale, meschinità e bruto egoismo. In questo sempre più simile a Kubrick, la cui carriera a tratti sembra aver scientemente ricalcato (I duellanti/Barry Lyndon, Alien/2001). Scott tocca qui un vertice assoluto del suo nichilismo misantropico: uomini senza alcun eroismo giostrano come i satelliti in moto inerziale di un Potere gelido e vacuo, così assurdo da rasentare il comico (la grande, saggia prova di Affleck) in nome di un Dio che non c’è, o se c’è è un dio infantile, “più umano dell’umano” e sadico, il Commodo di Il gladiatore, il dio bambino di Exodus. Il miglior Scott dai tempi di American Gangster?

“Captain Volkonogov Escaped” a Venezia 2021

Dopo il piccolo dramma transgender The Man Who Surprised Everyone (2018), presentato qualche anno fa alla 75a edizione della Mostra del Cinema dove vinse il Premio Orizzonti per la migliore attrice, Natasha Merkulova e Aleksej Cupov tornano al Lido di Venezia sorretti da ben altri mezzi e ambizioni ma in perfetta coerenza con le tematiche sviscerate da quel film. Rivestito nei colori di una messinscena sontuosa da grande racconto storico, venato di action e di una sottile patina tragicomica, il conflitto fra un militare sedizioso e la Patria che non vuole più servire conferma i due registi-sceneggiatori (coniugi nella vita) come esploratori di dinamiche di dissenso in contesti oppressivi, intenti a illuminare e discutere il conservatorismo dei valori tradizionali del paese.

“Gli indifferenti” e lo spaesamento delle epoche

Com’è ovvio vista la distanza ormai quasi secolare che la separa dal romanzo, la nuova versione di Leonardo Guerra Seragnoli opera una più decisa ri-attualizzazione delle dinamiche borghesi narrate da Moravia. Apparentemente in contrasto con questo assunto, la scelta di non stravolgere più di tanto il testo originale denuncia da una parte l’allineamento alla fiducia dello stesso autore nella trasversalità del suo potere di disamina sociale, dall’altra – quasi a conferma della natura bifronte di questo classico del nostro novecento – è indizio decisivo della volontà da parte degli autori di porre in parallelo le classi agiate di due epoche lontane, tanto imparagonabili quanto accomunate da uno stesso frastornante, sismico senso di spaesamento.

“Run, Hide, Fight” a Venezia 2020

L’irruenza da b-movie di Run, Hide, Fight, che entra a gamba tesa nella discussione da una prospettiva conservatrice fino al midollo, ha il merito oggettivo di infrangere questo tabù, tentando con le armi viscerali del cinema di genere di restituire un senso degli eventi, una “visione” (in luogo di un puro “sguardo”) su perpetratori e vittime. Non è un caso che, prima di scatenarsi a cervello spento per tutto l’ultimo atto, per costruirsi dei presupposti psicologici l’action adrenalinico chieda soccorso all’horror, il genere che assieme a certa commedia demenziale ha meglio esplorato il lato oscuro dell’america adolescente. Sottolineiamo psicologici, perché ovviamente l’idea di un’origine ambientale della furia omicida non sfiora la sensibilità redneck dei realizzatori.