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“L’innocenza” speciale I – L’innocenza scoperta nel cinema scrigno
Il titolo originale, Mostro, contribuisce più dell’italiano L’innocenza, quasi opposto, a (dis)orientare chi si accinge ad aprire la scatola dell’ultimo film di Hirokazu Kore’eda. Affezionato lui a un cinema di manipolazione empatica del pubblico, e grati noi per i limpidi inganni che tesse a nostro beneficio, il titolo come porta d’accesso al film ne prelude minacciose atmosfere horror, che lo stile riprova, avvincente e inquietante.
“Civil War” e gli ultimi fuochi della democrazia
Che siano Vietcong, terroristi islamici, concittadini civili o presidenti, quando i caduti diventano prede, come accade in guerra così come nel documentarla, rughe, sorrisi, rigurgiti e paralisi si fanno indecifrabili e aprono a plurime interpretazioni sulla natura umana e sul futuro che questa è in grado di desiderare e costruire. E l’interpretazione di Garland, pur non definitiva, non prelude alle magnifiche sorti e progressive.
“Priscilla” è una di noi
Con il tono distaccato e inafferrabile che da sempre accompagna le storie delle sue giovani protagoniste, Sofia Coppola incornicia in un perimetro ovattato, fatto di moquette, frullati e tende, la vita sentimentale di una vergine alle prese con le montagne russe del primo amore. Un dramma interiore che non necessita di volumi alti, lei sempre leggera e imprendibile, a dispetto del contesto musicale fragoroso per eccellenza in cui ebbe luogo, del quale in Priscilla, non a caso, non si sente alcuna eco.
“La zona d’interesse” speciale II – La tortura mancata
L’inglese Glazer, nell’adattare liberamente il romanzo omonimo del suo connazionale Martin Amis, realizza un’opera complessa e radicale nella sua astrattezza. Racconta molte cose, nessuna in particolare, tutte rilevanti e ciascuna potenziale oggetto di altri film a sé stanti, scegliendo deliberatamente di non dire nulla e di aprire l’abisso del fuori campo non durante la centrale sequenza notturna che ingloba ogni possibile lettura, ma oggi, a ottant’anni di distanza, nel campo diventato museo-cimitero.
Tutto è femmina – Speciale “Povere creature!”
Come la Barbie di Greta Gerwig perde di punto in bianco serenità e innocenza risvegliandosi dal sogno zuccheroso di Barbieland per spostarsi con urgenza in quello reale, così la Bella di Lanthimos risponde agli stimoli della vita con stupore e logica, meraviglia e disperazione, dedizione e iniziativa. Al progressivo crescere della consapevolezza il suo sguardo si fa informato, i modi armoniosi e un obiettivo prende forma, eterno approdo di ogni neo-adulto che si domanda: “per cosa sono qui?”.
“Killers of the Flower Moon” speciale II – La violenza non abita più qui
L’operazione viaggia su due piani: da un lato il martirio cristologico di Mollie, cuore della propria famiglia, della sua tribù e del film; dall’altro le redini stilistiche di Scorsese che intrattiene sì con la maestria usuale, ma deprivandola della foga e della veemenza di quando lui stesso era più giovane per confezionare un’ultima ora di film che va in crescendo per astrazione e corrispondente abbassamento di toni e suoni.
“Falcon Lake” nelle acque inquiete dell’adolescenza
Giocare con la morte, sfidarla e cercarla: l’adolescenza è pervasa anche di questo umore. In Falcon Lake, primo lungometraggio della quebecchese Charlotte Le Bon, la si contempla subito, in un corpo che galleggia a pancia in giù sulla superficie di un lago. Tanti i riferimenti cinematografici cui si appella con freschezza e riverenza la brava Le Bon. C’è soprattutto il David Lynch di Twin Peaks in quei boschi oscuri scossi dal vento, non distanti, nella geografia e nelle intenzioni d’autore, dalla cittadina in cui è (forse) morta la diciassettenne Laura Palmer a inizio anni Novanta.
In fuga su una Thunderbird verde
Il finale è talmente iconico che persino I Simpson se ne sono appropriati per una loro puntata, in cui Marge in fuga in macchina con un’amica si getta sì nel Grand Canyon, ma plana a sorpresa su una colonna di altre vetture epigoni lì ammucchiate, senza sfracellarsi affatto come le Thelma e Louise originali al termine del loro volo liberatorio. Ché poi, in realtà, Ridley Scott e Callie Khouri mica ci fanno vedere la fine di quel volo: in Thelma & Louise, l’epico fermo immagine che immortala le due protagoniste in pieno salto nel vuoto è tutt’altro che fatale.
“Air – La storia del grande salto” nel canestro del capitalismo sano
Come nelle sue precedenti pellicole, Affleck si circonda di un comparto tecnico di prim’ordine, che il regista sceglie di sfruttare in modo non propriamente autoriale, ma artigiano. Non è verso l’autorialità che desidera andare, ma verso il divertito omaggio a tempi e valori che furono, schematizzati e ridicolizzati negli orrendi mocassini di Vaccaro e nelle fluorescenti fisse sportive di Knight, ed elevati nella visione di futuro di entrambi e della famiglia Jordan. Born in the U.S.A.
“Magic Mike – The Last Dance” e i preliminari secondo Soderbergh
Per il saluto al suo ballerino dallo sguardo dolce e dalle alterne fortune, Soderbergh torna alla regia in Magic Mike – The Last Dance, con un titolo inequivocabile: il terzo è l’ultimo, e l’attesa da subito tutta per quel ballo finale in serbo. Quando non ci sono più banconote da lanciare né premi da aggiudicarsi, si torna al vero, al teatro, al vecchio continente e alla danza primordiale, di comunicazione fra individui, che incornicia il film con l’esplicito ballo di apertura e la sua inaspettata, suggestiva eco iper-romantica in chiusura.
“Gli spiriti dell’isola” speciale II – L’umanità che annega
Come in un sacco dell’immondizia quando si cerca qualcosa di importante che si è buttato per sbaglio, il Martin McDonagh di Gli spiriti dell’isola affonda le dita nelle viscere dell’essere umano e le rimesta a fondo senza misericordia. Il quarto lungometraggio scritto e diretto dall’autore fa dei luoghi e della comunità di uomini e bestie che li abita frattaglie da interpretare per divinazioni sul futuro un po’ di tutte le terre, quelle da cui e quelle per cui si salpa. E non è in vena di buoni auspici.
“The Fabelmans” Speciale IV – La via subliminale al classicismo
Non siamo di fronte alla storia straordinaria di un ragazzino che fa amicizia con un extraterrestre o perde i genitori e cresce solo durante la guerra, né di adulti che sbarcano in Normandia per liberare l’Europa dai nazisti o danno la caccia a criminali o truffatori. Siamo invece alla scoperta di come il futuro autore di quelle storie fuori dall’ordinario abbia costruito il suo stile facendo confluire in esso scienza e incantesimo, macchine e emozioni, padre e madre. Non lo si è forse sempre definito il migliore regista di bambini sulla piazza, ma anche un Peter Pan restio a farsi adulto? Bene, The Fabelmans ci dice da dove veniva quell’occhio speciale sull’infanzia e la crescita.
“Le buone stelle” della gratitudine e della cura
Meno riuscito di Un affare di famiglia, Le buone stelle si porta comunque a casa molto. L’estremo incanto della sequenza sulla ruota panoramica, capace di fermare il tempo; quello della scena su musica di Magnolia, che il tempo lo fa scandire da un tergicristalli, e il concetto tipicamente orientale di gratitudine per l’essere venuti al mondo, espressa non verso qualche divinità, ma da un personaggio all’altro e ritorno.
“Love Life” a fuoco lento nel quadro domestico
Love Life cerca e trova un tono intimo e convincente, una temperatura calda alimentata a fuoco lento da quadri domestici d’appartamento, da condominii-alveare che li ospitano, fitti e regolari, e dal dialogo fra spazi di abitazioni e esterni – strade e giardini – che si dipana nell’arco dell’intero film. Protagonista è ciò che è dentro e che vi resta, quel che esce fuori e che ritorna a casa, in casa: lentamente si scova in quei passi, scale e terrazzi i veicoli dell’interiorità stessa dei personaggi, e di quanto di questa la proverbiale compostezza giapponese consenta loro di esprimere o trattenere.
L’inganno dell’uomo che amava le donne. “Tromperie” e il kammerspiel della conversazione
Tromperie – Inganno è un incastro di appassionate conversazioni in interni fra Philip, scrittore ebreo di New York e cinque donne reali e immaginarie, amate, sposate, scrutate e ascoltate su differenti piani di finzione sovrapposti. La moglie, l’amante, la studentessa, la ex e l’amica: con ognuna argomenti diversi, dalla passione al matrimonio alla maternità, dal mestiere di scrittore alla politica, dal lavoro alla salute, fisica e mentale. Tutto o quasi in una stanza, sia essa quella di casa o dello studio dell’autore, di un caffè o di un ospedale, un attimo prima di tornare fuori, a vivere davvero.
“Parigi, 13 Arr.” dove abita l’amore liquido
Di poco più grandi dell’Alana di Licorice Pizza, questi figli putativi di Audiard sono molto più irrisolti e spaesati non solo di lei, ma persino di Gary, che ad appena quindici anni ha già trovato la sua strada e la sua donna. E se Gary e Alana negli anni ’70 corrono, si abbracciano e si tengono per mano, i tre di Parigi, 13 Arr. consumano subito, spesso e male, con chi capita, non attrezzati per filtrare le esperienze e ostacolati nel provarci da app di incontro e “revenge porn”. Dalle derive di una modernità impermanente e incerta si fa strada ciò che per Gary e Alana è invece materia prima: il dialogo.
“Licorice Pizza” speciale I – La corsa incontro al tempo
C’era una volta a… Hollywood Licorice Pizza, catena di negozi di dischi della California del sud. E c’è oggi Paul Thomas Anderson, che festeggia il suo cinquantesimo compleanno dirigendo Licorice Pizza per tornare a tempi, luoghi e atmosfere della sua adolescenza, lui nato proprio intorno ad Hollywood, rivedere le insegne di quei negozi di vinili e fare del più sentimentale dei suoi film una celebrazione degli anni ‘70 di quella California, in risposta all’elegia tarantiniana del 2019 come Bastardi senza gloria rispose a Il petroliere negli anni 2000.
“Il ritratto del duca” e il potere della leggerezza
Più che di The Queen, Il ritratto del duca di Roger Michell ha il tono di Lady Henderson presenta, sempre di Frears, sotto i cieli di Le ceneri di Angela di Alan Parker, di cui si propone quale controcanto lieve e solare. E trova un’occasione per inscriversi nella migliore tradizione del cinema britannico, tracciata, va detto, più dai due più celebri colleghi che non da lui. Peccato, quindi, per il regista del non indimenticabile Notting Hill, morto poco dopo la fine delle riprese di The Duke, non essersi potuto godere il favore tributato al suo piccolo brillante film, forse il migliore della sua carriera.
“L’origine del mondo” è quella di ogni male
L’esordio di Lafitte alla regia non ha le ambizioni narrative e stilistiche dei film corali del suo collega Guillame Canet che lo hanno co-protagonista, Les Petits Mouchoirs (2010) e Nous finirons ensemble (2019), ma L’origine del mondo, previsto prima per la selezione ufficiale del Festival di Cannes 2020, uscito poi a singhiozzo solo alcuni mesi dopo in Francia e in Belgio fra chiusure ed aperture pandemiche e disponibile oggi su piattaforma, ha il pregio di presentarsi suo malgrado come il perfetto passatempo da confino Covid.
“Il capo perfetto” per il capitale imperfetto
Beffardo e divertente senz’altro, indignado il giusto, Il capo perfetto è consapevole del diverso marcio della vecchia e della nuova generazione di lavoratori e del valore del tutto smarrito di “competenza acquisita”. Però anche stranamente rassegnato alla logica del capitale che chiaramente respinge: se è evidente il disinteresse a confezionare un film alla Ken Loach, e va benissimo, resta oscuro il discorso che davvero gli sta a cuore. Quanto sia difficile giudicare chi comanda? Forse. Dirci che i manager sono capaci letteralmente di qualsiasi cosa? Lo sapevamo già, purtroppo.