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“Les Enfants du Paradis” opera cinematografica totalizzante

Un kolossal da oltre centonovanta minuti che, diviso in due parti, abbraccia un periodo di diversi anni e si muove con disinvoltura tra una varietà di generi che spaziano dal melodramma alla commedia, arrivando finanche a contaminarsi con delle sporadiche incursioni nel thriller. Una natura multiforme che riflette le sfaccettature dei protagonisti, figure archetipiche cariche di valori contrastanti e in perenno conflitto. L’eroe romantico che si lancia al disperato inseguimento dell’amata è costretto a soccombere al muro di folla festante, un carnevale di volti deformati, ira, disperazione e giubilo; stati d’animo parossistici che soffocano il fioco grido di un amore interrotto. Come a sottolineare che le passioni più intense sono anche quelle meno rumorose.

Antropologia di “San Donato Beach”

San Donato Beach è uno spaccato realistico di un contesto borderline, ma anche una sublimazione dello stesso tramite una ricercata distorsione dell’ambiente cittadino. San Donato non è quindi solo il luogo in cui collocare geograficamente gli incontri mostrati nel film, ma diviene una componente fondamentale per la definizione del tono generale dell’opera. Il quartiere genera un’atmosfera che riesce ad alleggerirsi ed incupirsi a seconda dei contenuti su cui ci si sta soffermando. L’ambiente urbano diviene quindi un ulteriore personaggio di questo documentario scaturito non tanto da una razionale volontà di indagine antropologica, quanto più da una recondita esigenza di contatto umano.

“Pandora” e lo splendore cromatico del melodramma

Negli anni Cinquanta l’industria hollywoodiana esonda dalla propria zona di comfort e si espande con decisione verso i territori del fantastico. Pandora figura tra i titoli che, agli albori del decennio, impostano la rotta verso generi segnati da mondi immaginari e figure ammantate di mistero, affermandosi però come un esperimento ancora parte di un sistema in trasformazione, più che un manifesto del nuovo corso della cinematografia d’oltreoceano. Diretto e prodotto da Albert Lewin, il film è una rivisitazione in chiave contemporanea della leggenda nordeuropea dell’Olandese Volante, diluita in un melodramma canonica in cui la protagonista interpretata da Ava Gardner viene travolta da una burrasca di impulsi amorosi.

“Cane di paglia” o dell’ambiguità nel cinema

Cane di paglia è un ritratto umano aggressivo e spietato, che poteva essere realizzato solamente da un autore che utilizza l’ambiguità come materia prima. La stessa foga irrefrenabile che ha ridisegnato il western con tinte accese e quanto mai dissacranti; la mano che ha calcato le aspre pieghe del cinema bellico, insinuandosi tra le fila reiette dell’esercito tedesco rinvenendovi un’inedita umanità; o ancora la capacità di delineare degli eroi action fuorilegge tanto rudi quanto intimamente fedeli alla propria etica. Per Sam Peckinpah verità e giustizia sono principi delicati che vanno scandagliati attraverso un cinema potente, tanto cristallino nella sua giocosa patina quanto imperscrutabile nelle implicazioni tematiche.

“Nomadland” tra ombra della fine e tenue speranza

Per la precisione e la spontaneità, il Leone d’Oro Nomadland è da considerarsi l’opera della maturità per Chloé Zhao, che pur mantenendo la sua impronta marcatamente estetizzante, riesce in questa occasione a smarcarsi da una scolastica concezione del dramma. Sprazzi di realtà in presa diretta, che sfociano talvolta in un atteggiamento quasi documentaristico, si alternano alla maestosa imponenza di un’America ampia e spoglia come raramente la si è potuta ammirare nelle produzioni d’oltreoceano. I primi piani della protagonista fanno da contrappunto a campi lunghi in cui il suo corpo viene ridotto ad una minuscola sagoma sovrastata dalle tinte crepuscolari degli immensi paesaggi. E malgrado l’ombra di una fine inevitabile incomba minacciosa su ogni sequenza, Nomadland riesce a conservare una sfumatura di tenue speranza.

Il conflitto narrativo di “Hopper/Welles”

Un dialogo tra due figure emblematiche nell’industria cinematografica del proprio tempo, alla stregua dei più formali confronti tra Francois Truffaut ed Alfred Hitchcock o la più recente intervista di Olivier Assayas ad Ingmar Berman, ma con una fondamentale differenza: in questo caso non è il giovane baldanzoso che interroga il Maestro, bensì il navigato autore che dall’alto della sua levatura culturale trova un perverso piacere a problematizzare le affermazioni dell’esordiente. Il ritratto che traspare è quello di un Orson Welles disilluso, pesantemente inaridito dalle diatribe produttive, contrapposto all’ingenua spensieratezza di Hopper, stella in ascesa che ancora conserva l’illusione di poter cambiare il mondo con il potere della propria arte.

“Le sorelle Macaluso” e la potenza della sincerità

Qual è il tema cardine di questa amara sinfonia di dramma e ilarità? L’inesorabilità dell’incedere cronologico, che non si arresta di fronte alle difficoltà umane, ai rimpianti insanabili e all’azione opprimente della memoria che grida imperterrita il proprio dolore senza trovare pace. Mirato alla rappresentazione di questo fenomeno Le sorelle Macaluso è un film dolorosamente spietato nella sua volontà di non voler concedere alcun appiglio consolatorio. E a chi considera riprovevole il fatto che le protagoniste vengano mostrate solamente nei loro momenti di massima vulnerabilità, il racconto pare voler ribattere con tono aggressivo che la rappresentazione enfatica e reiterata del dolore può trascendere il facile manierismo ed aspirare, cose in questo caso, ad essere un’onesta e puntuale riflessione su esperienze che troppo spesso tendono ad essere represse.

“The World to Come” a Venezia 2020

The World to Come di Mona Fastvold esordisce con una solenne voce fuori campo volta a descrivere i tormenti di una donna che vive con il marito in una fattoria nel Nordest degli Stati Uniti di fine Ottocento. Fin da queste primissime battute appare chiara la discrepanza tra il candido ma apatico lirismo della narrazione verbale ed il rustico calore della vivissima messa in scena. Le parole della protagonista Abigail (Katherine Waterston) scandiscono il passare delle stagioni e l’evolversi della sua condizione personale, dalla dolorosa monotonia iniziale alla dolce rifioritura favorita dall’affettuoso rapporto instaurato con la nuova arrivata Tally (Vanessa Kirby alla sua seconda notevole apparizione in questo festival), anch’essa insoddisfatta moglie di un austero fattore a cui non riesce a dare un erede.  

“Pieces of a Woman” a Venezia 2020

In un’edizione del festival cinematografico più antico del mondo che ancora una volta si mostra particolarmente interessato alla rappresentazione di figure femminili (privilegiando quest’anno anche lo sguardo autoriale delle donne, con otto registe inserite nella selezione principale), il cineasta ungherese Kornél Mundruczó si inserisce nell’ampio coro di voci in una maniera non del tutto dissonante, ma di certo dirompente nella sua carica espressiva. Il dolore di una giovane madre che si trova a dover affrontare il più lacerante dei lutti, trovandosi ad assistere inerme alla tragedia della vita che abbandona la figlia appena data al mondo, si trasforma nel materiale narrativo su cui impostare un lento e graduale percorso di autodeterminazione.

Vampate di inattesa crudeltà. Il cinema di S. Craig Zahler

Per Zahler ogni fotogramma è un raro bene dal valore inestimabile, un dono da non sperperare nell’enunciazione verbosa di ciò che può essere dedotto semplicemente scrutando le figure che si muovono sullo schermo. Parliamo di un cinema che individua il proprio fulcro narrativo nella mostrazione più che nella spiegazione. Una drammaturgia che descrive i personaggi attraverso null’altro che il loro modo di agire e reagire alle continue collisioni con l’esterno. Un’inclinazione che porta le opere di questo regista ad essere sempre orientate ai generi, ed alla loro continua combinazione. Così un western dalla struttura classicheggiante come il suo film d’esordio, viene investito dai connotati gore che hanno segnato l’horror di inizio millennio.

Polanski e la trilogia dell’appartamento

Da luogo intimo e confortevole, scudo nei confronti dei pericoli del mondo esterno, a claustrofobico scrigno costrittivo e amplificatore di reconditi disagi. Le molteplici forme assumibili dall’ambiente domestico riflettono gli stati emotivi degli individui che in esso risiedono. Aspetto il cui potenziale suggestivo in campo cinematografico era ben noto già a pionieri dell’orrore come Robert Wiene o Paul Leni. Come un labirinto di specchi deformanti, le mura di casa possono rendersi agenti distorsivi della percezione umana. Una delle più lucide traslazioni di questo fenomeno in racconto audiovisivo giunge dalla filmografia di Roman Polanski ed in particolare da quel trittico irrinunciabile che, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, ha saputo scandagliare il terrore annidato nelle stanze di appartamenti immersi in contesti urbani.

Gli stimoli sensoriali di “1917”

Il cinema di guerra nasce come sinonimo di montaggio frenetico ed alternanza di punti di vista ad altezza d’uomo, rapportati in modo da fornire una visione esaustiva dell’azione. È su questa area che il regista britannico sceglie di intervenire con il suo ultimo lavoro, riproponendo la Prima Guerra Mondiale attraverso uno spunto inedito: non solamente immerso nel mare delle trincee, ma anche in perfetta continuità temporale con gli avvenimenti che si rincorrono sullo schermo. La tecnica iperrealistica del piano sequenza, esasperata in due atti distinti tramite celati interventi di montaggio fino a sorreggere il film per la sua intera durata, costituisce già nelle premesse l’elemento più ardito di un’operazione produttivamente ambiziosa.

Un tenero congedo – Speciale “Star Wars – L’ascesa di Skywalker” I

Al culmine del suo crescendo conclusivo, il raffinato e polarizzante film di Rian Johnson recideva con decisione gran parte dei legami che ancoravano il nuovo Star Wars ai pilastri della mitologia lucasiana. Evento drastico, secondo alcuni, che viene neutralizzato fin dalle primissime fasi di L’ascesa di Skywalker, il quale tenta di riequilibrare le dicotomie scardinate e reinserire i due protagonisti nei collaudati schieramenti contrapposti. Archi narrativi che sembravano saldamente orientati ed in fase di risoluzione vengono qui ritrattati ed il superamento dei nuovi ostacoli indotto a passare attraverso la pacificazione con le vecchie glorie della “Galassia lontana lontana”, mentori cruciali nel definire le scelte e l’approdo finale.

“Parasite” e il paradosso del nucleo famigliare

Quello che il regista Bong Joon-ho porta in scena nel suo ultimo lungometraggio è un mondo impostato su una struttura verticale. O meglio, è il nostro mondo, quello che affolliamo quotidianamente, ma riproposto attraverso una realtà diegetica compartimentata, in cui gli spazi si fanno indicatori della condizione sociale degli individui che li abitano. In questo modo, l’eloquente esordio raffigurante i membri della famiglia al centro della storia costituisce immediatamente una calzante definizione dello stato in cui versano i personaggi. A Seul, in un’angusta dimora sotterranea, fratello e sorella impugnano i loro cellulari e tendono le mani verso l’alto cercando di agganciarsi alla connessione wi-fi di un appartamento superiore. I genitori li osservano mestamente, ormai rassegnati all’essenzialità che connatura la loro condizione ed all’impossibilità di abbandonare quella residenza suburbana.

“Il pianeta in mare” di Andrea Segre a Venezia 2019

A pochi chilometri dall’ammaliante centro storico di Venezia sorge l’isola artificiale di Marghera. Realizzato nel secondo decennio del Novecento, questo quartiere nato su suolo paludoso, grazie all’azione dell’attività umana, è prosperato fino a diventare l’agglomerato industriale più grande d’Italia.  Un immane epicentro di attività produttive, dalla lavorazione siderurgica all’ingegneria navale, che a loro volta si sono fatte polo d’attrazione per altre imprese e sbocchi occupazionali, le cui maestranze hanno dato vita ad una nuova e corposa comunità situata ai margini della laguna. Andrea Segre dedica il suo nuovo documentario alle vite degli individui ancorati all’attività di questo polo operativo, neutralizzando la propria presenza ed attuando un pedinamento ravvicinato che permette alle semplici azioni quotidiane di farsi eloquente racconto di questo uggioso microcosmo.

“Boia, maschere e segreti” a Venezia 2019

Formalmente blando nel definire una dialettica tra il materiale di repertorio e l’attento racconto delle personalità coinvolte, questo documentario brilla per la sua capacità di estendere ben oltre i limiti dello schermo la propria passione nei confronti della materia trattata. Inglobando il punto di vista di autori quali Dario Argento e Pupi Avati, Boia, maschere e segreti fornisce una prova concreta di come l’esplosione dell’horror nostrano abbia generato un’onda d’urto in grado di scuotere ed influenzare anche i decenni successivi. In modo analogo, lo sguardo esterno ma non meno caloroso di critici e teorici francesi (tra cui spiccano Frédéric Bonnaud e Bertrand Tavernier), contribuisce ad ampliarne la portata, estendendone il raggio d’azione al di là dei confini nazionali e contribuendo ad inquadrare gli anni Sessanta come un fastoso periodo dalle sterminate possibilità per il cinema italiano.

“About Endlessness” e la finestra sulla vita quotidiana

Ben lungi dalla voler elargire un retorico discorso sul senso dell’esistenza, About Endlessness accentua la riflessione sul mistero dell’infinito e sulla fragilità del vivere. Nell’incapacità da parte dell’essere umano di elaborare una risposta adeguata, la soluzione di Andersson è ancora quella di soffermarsi ad apprezzare il valore dell’esserci. Anche in un mondo in cui i colori vengono appiattiti fino a confondersi tra loro e scomparire, dove il peso delle croci portate nei calvari quotidiani tormenta gli individui perseguitandoli anche nel sonno, o in cui addirittura un dittatore che ha sfiorato con le proprie mani il potere assoluto si rende conto di essere una presenza insignificante, l’unica possibilità per un sopravvivenza dignitosa è rendersi conto della meraviglia di esistere.

“New York New York” a Venezia Classici 2019

Nell’anno successivo all’ormai leggendario Taxi Driver (1976) – opera seminale che intercettava il clima tumultuoso della New York degli anni Settanta restituendone un affresco sordido ed ombroso – Martin Scorsese porta nuovamente in scena la sua città natale, neutralizzandone la violenza espressa dal lungometraggio precedente e adibendola a romantico sfondo di una tormentata storia d’amore. Nella tempesta di forze revisioniste che nello stesso decennio animavano la rivoluzione della “New Hollywood”, anche il musical, genere d’evasione per eccellenza, non poteva rimanere esente dalle influenze propagate dagli innovatori del cinema americano. Quella di Scorsese, quindi, non può essere una patinata parabola volta al lieto fine, alla restaurazione di uno status quo confortante minacciato da forze ostili. Anche il musical viene problematizzato, gli archetipi classici subiscono uno scardinamento e la certezza del trionfo da parte dei buoni sentimenti viene minata dalla cinica incursione di una brutale realtà.

“Fellini fine mai” di Eugenio Cappuccio a Venezia Classici 2019

Nonostante l’impeto dell’onirismo autobiografico che la contraddistingue, quella di Fellini resta ancora oggi una figura ammantata dal mistero; un autore dalla poetica tanto cristallina nella definizione del suo immaginario di riferimento, quanto imperscrutabile nel proprio processo di elaborazione e creazione artistica. Un contrasto che accentua il fascino del regista riminese, consentendogli di rimanere un soggetto ricco di zone d’ombra meritevoli di essere indagate. L’opera di Eugenio Cappuccio tenta di inserirsi nel coro di voci che definiscono e compongono il mosaico felliniano, sfruttando un punto di vista intimo e personale. Indagando la travagliata gestazione dei progetti troncati e mai trasposti su schermo come Viaggio a Tulum e Mastorna, il documentario concede la possibilità di sondare l’aspetto più scaramantico e irrazionale dell’autore, ammantandolo del sopracitato e imprescindibile alone di mistero e tralasciando la volontà di voler trovare una risposta univoca agli interrogativi sollevati. Come una sagoma che si staglia su uno sfondo nebbioso e per questo intrigante, i racconti su Fellini non possono avere fine perché illimitate sono le dimensioni esplorate da quest’uomo per cui la vita necessitava di rimanere un enigma, una forza non distorta dall’artificiosa conoscenza umana, ma libera di potersi espandere secondo logiche inconcepibili dalla razionalità degli uomini.

“Joker” di Todd Phillips a Venezia 2019

“Un fiore bellissimo nato sull’asfalto” è la metafora utilizzata dall’autore, la quale sintetizza efficacemente lo scontro tra l’anima tormentata del protagonista e il contesto brutale con il quale è costretto a scontrarsi. Qui, tra sorrisi pronti a tramutarsi in smorfie, Arthur comprende come le proprie spalle siano troppo esili per reggere il peso opprimente della cattiveria che lo pressa senza tregua. La follia allora diventa l’unica strada da intraprendere per instaurare un dialogo con la realtà, le irrefrenabili risate perdono l’asfissiante timbro gutturale ed esplodono in una straripante e malsana ilarità che trasforma il dramma in una commedia talmente tetra da risultare più dura e cupa della tragedia stessa. Una discesa senza possibilità di ritorno, coraggiosissima nel precludere ogni spiraglio di redenzione a un personaggio dalla massiccia carica empatica. Phillips tiene le redini col polso fermo di chi ha ben chiaro l’esito per il quale si sta adoperando e sfrutta la grottesca corporeità di Phoenix per enfatizzare le fasi salienti con sprazzi di terrificante poesia. La tensione è calibrata con sapiente maestria fino ad un atto finale in cui la potenza del racconto divampa in un climax ascendente di concitazione, efferatezza ed eleganza stilistica.