Archivio

filter_list Filtra l’archivio per:
label_outline Categorie
insert_invitation Anno
whatshot Argomenti
person Autore
remove_red_eye Visualizza come:
list Lista
view_module Anteprima

Il cinema in costume di Kinugasa tra storia e melodramma

Film come La battaglia di Kawanakajima (1941) e Il bonzo mago (1963) testimoniano come Teinosuke Kinugasa sia stato un autore capace di giocare con la storia del Giappone. Il primo caso rappresenta una vera e propria acrobazia artistico-diplomatica per l’autore, che accoglie la richiesta governativa di opere a carattere storico ‘più serie’ dei popolari chambara del periodo.  In tutt’altro contesto si colloca Il bonzo mago, realizzato in anni certamente più permissivi e ambientato nell’epoca Nara (VIII secolo d.C.), un periodo caratterizzato da cambiementi culturali più che da spargimenti di sangue.

“The Wicker Man” estatica celebrazione dell’horror

“Il Quarto potere dei film horror”. Così la rivista di culto Cinéfantastique definì nel 1977 The Wicker Man, capolavoro del cinema inglese realizzato in un periodo difficile per l’industria britannica. La stessa British Lions, produttrice del film, venne comprata durante le riprese obbligando la troupe a finire il prima possibile. Una volta distribuita, l’opera non ottenne l’attenzione che meritava ma venne riscoperta già pochi anni dopo, diventando un cult.

“The Dreamers” e la cinefilia morbosa

A metà fra Prima della rivoluzione e Ultimo tango a Parigi, The Dreamers è un racconto sul suicidio dell’utopia, su passioni ingenue vissute ingenuamente, in cui i personaggi cercano disperatamente di esprimersi attraverso i corpi, morboso come solo le migliori opere di Bertolucci. Perfino la cinefilia dei personaggi è malsana e diventa uno strumento di ricatto, un pretesto per giocare a fare i sadici umiliando sessualmente chi non coglie la colta citazione cinematografica di turno.

“La maschera del demonio” e la concretezza dell’orrore

L’eccezionalità di La maschera del demonio non è dovuta all’originalità narrativa, piuttosto all’incredibile perizia tecnica di Bava, curatore anche degli effetti speciali, e dalla conseguente concretezza materiale della sua messinscena. Realizzato con mezzi esigui, La maschera del demonio è infatti una lezione imprescindibile di ottimizzazione del budget: basti pensare che l’intera cripta presente nel film è una stanza di circa nove metri quadrati e che tutte le scenografie sono cartapesta mascherata da macchine per il fumo.

“La casa dalle finestre che ridono” favola macabra contadina

L’unicità dell’opera risiede nella personalissima visione di Avati, che si approccia al genere a più riprese, l’ultima delle quali è Il signor Diavolo. L’autore rifugge tanto il labirintico contesto della metropoli notturna quanto l’isolamento di tetre magioni in boschi inospitali. Avati prende piuttosto la famigliare realtà del paesino di campagna, che ha conosciuto quando sfollato per via della guerra, e ne orrorifica le dinamiche culturali, facendo emergere dalla favola contadina un sottotesto macabro ed esoterico.

“Thelma & Loiuse” tra solidarietà e vendetta

In diversi studi, Thelma & Louise viene poi annoverato anche fra i rape & revenge insieme ad opere che si focalizzano con maggiore enfasi sulla violenza sessuale, come L’angelo della vendetta o Thriller. Sebbene opinabile come classificazione, le coordinate etiche dell’opera di Scott sono sovrapponibili a quelle di molti film appartenenti a quel genere, dal ginocentrismo antisociale al giusizialismo palliativo.

“Guardiani della Galassia Vol. 3” più adulto e riuscito

I fan della saga e della Marvel in generale avranno motivo di apprezzare Guardiani della galassia vol. 3, un grande more of the same realizzato con gusto, conclusione dell’unica serie MCU con una coerenza stilistica interna. Considerando Guardiani della galassia vol. 3 come opera autonoma, ci si trova dinnanzi a un ottimo film d’intrattenimento con una buona profondità drammatica e che non fa soffrire affatto le sue due ore e mezza di lunghezza.

“La città verrà distrutta all’alba” 50 anni fa

Prima che il nome di Romero venisse associato indissolubilmente ai suoi film di zombie, l’autore statunitense dirige una piccola gemma del cinema fantapolitico: La città verrà distrutta all’alba. Il film racconta di un’arma chimica caduta accidentalmente nei pressi di una cittadina della Pennsylvania e dell’escalation di violenza che ne consegue. È proprio nella risposta dei personaggi alla repressione militare che emerge la personalità autoriale del regista, che non si limita a criticare le iniquità insite nelle strutture di potere, ma analizza l’inconscio collettivo statunitense. 

“Zardoz” turbinoso e psichedelico

Considerato un film trash quanto un cult, Zardoz rimane un’opera straniante e sorprendente, uno di quei casi in cui collassa la distinzione fra cinema di genere e d’autore. John Boorman sfruttò la libertà di sviluppare un soggetto personale e non convenzionale, che non venne apprezzato granché quando approdò nelle sale. L’autore inglese fu rimproverato prevalentemente per le troppe considerazioni filosofiche. Indubbiamente una sola visione non basta per entrare in sintonia con un prodotto così sfuggente, che ibrida fantascienza distopica e mystery, speculazioni sulle implicazioni sociali dell’immortalità e un caleidoscopico impianto visivo/narrativo.

Speciale Park Chan-wook – “Old Boy” e le colpe degli uomini

Old Boy è un film crudo e disturbante in cui i personaggi, messi dinnanzi alle proprie colpe, non trovano altra catarsi che uccidere, torturare, mutilarsi o tuttalpiù cercare di dimenticare. Confrontato con gli altri due capitoli della trilogia, Old Boy risulta più intenso e meno rigoroso del precedente Mr. Vendetta, ma senza toccare le vette di divertito barocchismo stilistico del successivo Lady Vendetta.

Speciale Park Chan-wook – “JSA” tra due popoli

Mentre film come Il prigioniero coreano postulano l’impossibilità di una riunificazione per l’avversa volontà dei coreani stessi, in JSA si assiste a un timido tentativo di fratellanza fine a sé stesso che rimane soffocato nelle tenaglie di un equilibrio politico troppo fragile, in cui entrambe le parti in causa preferiscono nascondere la verità che alterare lo status quo. Tra i limiti artistici dell’opera il maggiore è non valorizzare sufficientemente il rischio che comporta l’amicizia fra soldati del sud e del nord.

Speciale Park Chan-wook – “Mademoiselle” summa stilistica

Mademoiselle segna il ritorno di Park Chan-wook in Corea dopo la realizzazione di Stoker, coproduzione USA/UK in lingua inglese. Ci sono varie somiglianze fra le due opere, benché i loro punti di arrivo siano diametralmente opposti. Entrambi sono thriller psicologici al femminile, in cui l’ingresso di un personaggio esterno in un contesto famigliare disfunzionale funge da innesco per la crescita emotiva della protagonista.

David Herbert Lawrence e il cinema

Al di là dell’opinabile giudizio estetico, l’innegabile grandezza di Lawrence risiedeva nel suo essere sapientemente provocatorio, aveva capito il contesto che lo circondava e punzecchiava dove sapeva dolere di più. Il suo bersaglio prediletto è la puritana morale vittoriana, di cui il Regno Unito del primo dopoguerra era ancora intriso, e i cui stringenti dogmi sociali si contrappongono alla sua visione – invero naïf – di un ritorno a un tempo mitico, segnato dall’armonia fra essere umano e natura, e dall’intesa spirituale fra i sessi. Per lui l’atto sessuale è la via per una conoscenza estatica del mondo naturale in quanto tale, minata dall’etica utilitaristica e tecnofila del suo tempo.

“L’amante di Lady Chatterley” troppo grande per lo schermo

L’amante di Lady Chatterley è un romanzo impossibile da trasporre. Non solo D.H. Lawrence ne ha scritto tre versioni sostanzialmente differenti, di cui la terza è certamente quella adattata più di frequente, ma ciascuna di esse presenta personaggi talmente sfaccettati e psicologicamente complessi da renderli incomprimibili in un paio d’ore di audiovisivo. Anche il recente adattamento di Laure de Clermont-Tonnerre è tratto dalla terza versione, la meno ambigua e politicamente impegnata, e riesce quasi a valorizzarla.

“Videodrome” inesauribile e contemporaneo

Tanto è stato scritto su questo film, scomposto e analizzato fin nelle sue componenti minime. Eppure, ad ogni nuova visione colpisce sempre un dettaglio, un’intenzione autoriale, una direzione interpretativa nuova. Per questo Videodrome è un film inesauribile, in continua reincarnazione, che si adatta al contesto ricettivo di qualunque contemporaneità. È la rappresentazione di un disagio trasnumano, di una tensione esistenziale/tecnologico non ancora dispiegata.

“I giocatori di scacchi” secondo Satyajit Ray

Protagonista indiscusso dell’opera è il gioco degli scacchi, figurativamente quanto allegoricamente: passatempo di origine indiana modificato dagli inglesi, espressione della cinica logica del rischio calcolato, riduzione della guerra in un inoffensivo contesto ludico. La vicenda dei due incalliti scacchisti è perlopiù farsesca – tolta una sequenza dedicata all’abbandonata moglie di uno dei due, interpretata stupendamente da Shabana Azmi nonostante il ruolo secondario – mentre l’anima tragica dell’opera si condensa nella figura del sovrano.

“Master Gardener” ovvero Schrader l’impeccabile

È un cinema che procede per sottrazione, dove ogni elemento spicca autonomamente, sia che si tratti della rilassante voce narrante del protagonista o del fragore di ossa che si spezzano. Che la scrittura di Schrader sia impeccabile è oramai un fatto assodato, ma in Master Gardener, ancor più che in Il collezionista di carte, riesce a fondere ambientazione e personaggi ai temi portanti della narrazione. Tossicodipendenza e botanica, svastiche e boccioli in fiore si amalgamano alla perfezione in uno dei più interessanti mondi diegetici degli ultimi anni.

“Nope” e l’ossessione della fotogenia – Speciale parte II

Nope, l’ultima magnificente fatica di Jordan Peele, è certamente uno dei migliori film dell’anno, nonché un perfetto punto di partenza per chi non ha ancora avuto il piacere di entrare in contatto con la filmografia dell’autore statunitense. Di converso, gli apprezzatori dei precedenti lavori di Peele ritroveranno il suo stile riconoscibilissimo, tanto nelle idee registiche che nel registro della scrittura, ma un ritmo finora inedito. Rispetto all’incalzante incedere di Scappa e all’altalenante martellamento di Noi, Nope risulta meno denso e più disteso e la scrittura si concentra sul tema portante dell’ossessione per la fotogenia, dell’irrazionale spettacolarizzazione della realtà.

“Tommy”, poesia dissacrante dall’estetica ultra pop

Ken Russell era indubbiamente la persona perfetta per dirigere Tommy, capace di imprimere nel concept album di Pete Townshend la sua poetica dissacrante e un’estetica ruvida quanto onirica e ultra pop. Già regista di diverse originalissime biografie su compositori classici, i motivi che lo spinsero ad accettare il progetto furono la vicinanza della trama ad una sua sceneggiatura irrealizzata, The Angels, sul tema delle religioni fraudolente, e la possibilità di creare un «visual fist». Ha avuto ragione su entrambi i fronti.

“Tenebre” di cinema allo stato puro

Tolto il piacere puramente cinefilo del cogliere i riferimenti nascosti, Tenebre rimane un’opera intrisa della forte riconoscibilità autoriale di Argento. Tornano scelte registiche che hanno fatto scuola, come la soggettiva dell’assassino e l’ossessiva valorizzazione del dettaglio, il depistaggio dello spettatore ottenuto manipolando la visibilità del materiale narrativo, la rappresentazione unica di una Roma fantasmatica. Le opere di Argento sono cinema allo stato più puro perché impossibili da esprimere con altri mezzi comunicativi, e ogni occasione di visione in sala va quindi colta al balzo.