I primi film d’animazione dal BFI National Archive
Cinque film di breve ma intensa durata contraddistinguono la rassegna Ritrovati e Restaurati – Primi film d’animazione dal BFI National Archive, britannici, muti, sì, ma decisamente parlanti grazie all’ausilio di baloons presi in prestito dal mondo del fumetto in sostituzione delle comuni didascalie, tra cui Ever Been Had? (Dudley Buxton, 1917), Booster Bonzo: or, Bonzo in Gay Parade (1925) e Shadows! (Joe Noble, 1928). Sono in realtà molto più elaborate le tecniche di animazione di questi tesori rimasterizzati dal laboratorio inglese Dragon Digital a partire dalle copie conservate al British Film Institute: i classici fondi montati e dipinti a mano, sovraimpressioni e dissolvenze, l’uso della tecnica mista nella rocambolesca scena dell’animatore inseguito da un’ombra in due dimensioni in Shadows!, tratti e linee semplici, ma efficaci per Bonzo, il cane vanesio.
“Tieshan gongzhu” and the chinese animation at Cinema Ritrovato 2018
Tieshan gongzhu is known to be the first Chinese animated feature film and is treasured as such by the CDCC in Paris. It was realized in Shangai during WWII, during the Japanese occupation. The conflict had been going on for decades and also had led to the Rape of Nanjing in 1936. Wan Guchan and Wan Laiming, the directors, wanted to make the movie to be a contribution to the resistance. “Seeing an apolitical story used for a political issue is an artistic approach that has been used and is used in China to this day” says Tony Rayns during the presentation. The rotogravure technique is largely used and gives to the female characters a naturalistic elegance. When we first see Princess Iron Fan, she’s waking up and it’s there, in the way she stretches, that we can see the recall of Disney’s Snow White the most. After all, it was also because of its success that the Wan brothers were inspired to produce a story which featured a princess.
“La moglie di Claudio” con Pina Menichelli al Cinema Ritrovato 2018
Non poteva mancare al Cinema Ritrovato una sezione dedicata alle grandi dive del Cinema muto italiano. Apre le danze l’appassionante La moglie di Claudio (1918) con Pina Menichelli nel ruolo della protagonista. La storia si ispira a un’opera teatrale di Alexandre Dumas figlio: Claudio Ruper è un uomo retto e intelligente, capace di inventare un potente cannone capace di porre fine a tutte le guerre. Sua moglie Cesarina è tutto l’opposto: corrotta e senza scrupoli, con un passato torbido che cerca di sedurre gli uomini che ha intorno per manipolarli. I due rompono: Claudio inizia a frequentare Rebecca, ragazza ebrea proba e generosa; Cesarina prima si allontana, poi si affilia ad una banda di malfattori allo scopo di rubare al marito i piani segreti dell’arma. L’unica altra persona a conoscerli è il giovane Antonino, rimasto orfano e cresciuto come un figlio da Claudio, ma che si è innamorato follemente di Cesarina. In una girandola di intrecci ed emozioni si arriva al tragico finale con la Menichelli che si mette in mostra nella sua notoria gestualità esasperata, il “menichellismo”.
L’officina di Arrigo Frusta al Cinema Ritrovato 2018
Il Cinema Ritrovato 2018 presenta per la prima volta una retrospettiva su uno sceneggiatore italiano del periodo muto. Arrigo Frusta, però, non era un semplice scenarista, ma era in grado di scrivere pensando già alla messa in scena, dando a volte indicazioni sulle riprese o presentando progetti per i costumi che i personaggi avrebbero dovuto indossare. Nella prima giornata del festival sono state proiettate alcune sue produzioni tratte dalla collezione di Tomijiro Komiya (1897-1975), affamato collezionista giapponese la cui raccolta è fortunatamente giunta, seppur gravemente danneggiata, al National Film Center di Tokyo. Grazie al lavoro di Hiroshi Komatsu, molti di questi film sono stati identificati e poi restaurati. Tra questi troviamo anche alcuni film sceneggiati da Arrigo Frusta, tre dei quali sono stati proiettati oggi.
I mostri della Universal: il diverso nell’horror
Il binomio “mostro = diverso” si ripercuote anche sulla tarda filmografia orrorifica della Universal, toccando quello che è considerato il suo ultimo grande mostro, Gill-man (“Uomo branchia”). L’uomo pesce – definito dall’esperto di fantascienza Bill Warren “uno dei mostri più famosi mai creati” – è il protagonista di due pellicole in stereoscopia del veterano Jack Arnold (Il mostro della laguna nera del 1954 e La vendetta del mostro dell’anno seguente) e di una terza (Il terrore sul mondo, 1956) per la regia meno efficace di John Sherwood. La tematica del diverso, che qui reagisce perché vede invaso il suo habitat o viene strappato ad esso, è stata esplicitamente citata da Arnold: “La crudeltà dell’uomo si rivolge contro qualsiasi cosa, soprattutto se diversa da sé […] ebrei contro arabi, bianchi contro neri. Prima impareremo la lezione meglio staremo. […] Ecco cosa cercavo di dire con i miei film in un modo accettabile per il pubblico”.
La colonna sonora di “Alien”
È il 1979 quando Ridley Scott (Blade Runner, Thelma & Louise, Il gladiatore) porta sul grande schermo il volto della paura. Un essere mostruoso, creato nelle sue sembianze dal maestro Carlo Rambaldi, che sussurra alle ombre e vive di oscurità, spinto da una forza primordiale che è puro istinto di sopravvivenza e riproduzione. Un’immagine-simbolo, entrata di diritto nell’immaginario collettivo, delle angosce legate all’incapacità umana di comprendere l’ignoto.
“I gioielli di Madame de…” di Max Ophüls al Cinema Ritrovato 2018
Tra il 1950 e il ’55, Ophüls vola altissimo, un crescendo irresistibile che suscita tuttora una clamorosa, incontrollabile, irripetibile vertigine. Prendiamo I gioielli di Madame de… e chiediamoci: come diavolo è riuscito a raccontare con tanta spregiudicata e spietata modernità un universo così ingabbiato nei suoi riti da essere quasi inaccessibile ai posteri? D’accordo che il titolo è lo stesso del romanzo di Louise de Vilmourin, ma ammiriamo in quanti modi diversi viene messa in scena la reticenza sul cognome della coppia: lo starnuto provvidenziale, il vuoto di memoria, l’autocensura, l’allusione maliziosa. Accettando questa elusione tipica di una certa letteratura disponibile a parlar di tutto purché l’onore del ceto raccontato fosse salvaguardato da una velatura sotto forma di asterischi, Ophüls si cala nella visione del mondo di una società “superficiale in superficie” ben rappresentata dal terzetto di protagonisti.
“La trovatella” di John Ford al Cinema Ritrovato 2018
Leggero, divertente, ma allo stesso tempo capace di dare spessore alla vicenda, La trovatella dipinge la superficialità di un’alta società infantile e capricciosa, che non può far altro che apprendere la realtà da una ragazzina, la quale ne è venuta a conoscenza molto presto. Per contro Ford sceglie di non condannare totalmente la famiglia tramite la figura del fratello Steve, pecora nera e rinnegato, spesso ubriaco, tormentato dalle insidie della vita e più interessato a un’esistenza semplice, serena e frugale, che agli sfarzi di ville e yatch. Prima di chiudersi nella vasta tenuta di MacMillan, il film presenta toni cupi e tagli fotografici da cinema espressionista tedesco, per poi assumere gli stilemi della commedia frizzante grazie all’estro della protagonista Sally O’Neil e all’estrema caricatura di personaggi stereotipati.
“Storie del dormiveglia” e i dettagli dell’esistenza
“Io non sono il mio corpo sono qualcos’altro…sono il buio e la luce nello stesso momento, esisto e basta”. Inizia con queste parole il bellissimo film documentario di Luca Magi Storie del dormiveglia, vincitore di una Menzione Speciale al 49° Visions du Réel International Film Festival e ora al Biografilm 2018, nato dalla quinquennale esperienza del regista come operatore nella struttura di accoglienza notturna per senza tetto Rostom, nella periferia di Bologna. La pellicola scorre per 67 minuti formalmente perfetti, grazie all’approccio espressionista ottenuto dalla dialettica di luci e ombre, e dalle loro stesse ombre, grazie a fasci di luce netti e taglienti, emergono i profili più intimi e nascosti dei protagonisti.
Bergman 100, le gioie e i dolori di Ingmar
Bergman 100- La vita, i segreti, il genio individua il 1957 come annus horribils/mirabilis in cui possiamo ritrovare, portate all’eccesso, tutte gioie e i dolori che hanno caratterizzato e caratterizzeranno la vita di Ingmar. C’è il Bergman regista, che firma due dei suoi più grandi capolavori, Il Posto delle fragole e Il settimo sigillo, il Bergman uomo di teatro, capace di portare sul palcoscenico il Peer Gynth di Ibsen, dramma colossale il cui allestimento dura ben cinque ore, e il Bergman uomo, diviso tra la moglie, le amanti e gli innumerevoli figli, dei quali stenta a ricordare il numero preciso. Ad affiancare l’attività frenetica ed incessante, emerge un colossale groviglio di nevrosi, divenute poi il carburante delle sue pellicole migliori.
“I compagni” compie 55 anni
Nel 1963 Monicelli incappò in un fiasco al botteghino quando raccontò di uno sciopero a oltranza da parte di operai di una fabbrica tessile guidati da un professore socialista in una Torino di fine Ottocento. Questo film compie quest’anno 55 anni e – a dispetto dell’insuccesso al suo debutto – si ritaglia un posto d’onore tra le commedie amare più riuscite di Monicelli. Sicuramente la più partigiana, a partire dal titolo: I compagni. Proprio da qui, dal titolo, viene suggerita una coralità narrativa che Monicelli aveva già inseguito, senza riuscirci, ne La grande guerra, dove l’intenzione era inizialmente di raccontare le disavventure di un intero plotone che va a combattere, ma alla fine ad emergere sono i due protagonisti interpretati da Vittorio Gassman e Alberto Sordi.
“Il clan dei ricciai” come rivendicazione di dignità
Mai come in questi anni alcune sparute voci della politica e della società civile hanno cercato di avviare una riflessione sul “senso del carcere”, denunciando le condizioni spesso indecorose di molti istituti di pena e schierandosi dalla parte dei detenuti costretti a sopravvivere al di là della decenza. Non di rado sfugge a molti che la reclusione, in quanto privazione della libertà dell’individuo, è sì una pena, ma anche l’occasione per il carcerato di entrare in un percorso di riabilitazione per reintegrarsi nella società. Nella stagione in cui sono tornate di moda la giustizia privata e la sfiducia nel sistema giudiziario e sempre di più latitano valori quali il rispetto del prossimo e la tutela dei più deboli, Il clan dei ricciai arriva come un’inattesa e necessaria rivendicazione di dignità.
“La ragazza in vetrina” e la censura. Aspettando il Cinema Ritrovato
Oltre ai brutali tagli della censura che hanno alterato la trama de La ragazza in vetrina, come quel “no kiss” pronunciato dalla prostituta ed eliminato snaturando il significato del finale del film, il direttore dello spettacolo presso il ministero propone a Emmer venti milioni (di allora) per rigirare una scena: “Suggeriva di lasciare apparire Marina Vlady completamente nuda e forse di mostrare l’amplesso al posto della castissima scena da me girata. A condizione che dopo l’amplesso lei scorgesse su un giornale la fotografia del giovane minatore, con la notizia che era rimasto sepolto nella miniera per tre giorni resistendo alla disperazione (…) la ragazza allora doveva mettersi a piangere, dicendo ad alta voce ‘Tu sei stato un eroe io sono una miserabile prostituta’. Per la chiesa cattolica il peccato della carne è il più venale – quello che conta e non si può infrangere è l’ipocrita moralismo”.
“Almost Nothing”, il CERN e una democrazia quasi irreale
Cattedrale della conoscenza, dove i reattori rappresentano la comunione d’ingegni tra gli architetti e i fisici (“un’estetica tonda e simmetrica… il limite della bellezza”), lo spirito del CERN secondo ZimmerFrei si trova nella caffetteria, che, nei racconti dei protagonisti, si staglia quale luogo fondamentale e formativo, nonché il posto dove pare sia stato inventato il protocollo HTML. Lasciando sullo sfondo le appassionanti cerimonie dedicate alla comunicazione delle scoperte, ci si concentra su questa anticamera dello studio in cui discutere, confrontarsi, chiarirsi (“è confortante avere risposte”), rappresentazione di un mondo senza conflitti cosciente di essere il modello di una comunità autosufficiente dal “livello di democraticità quasi irreale”.
Marcello, come here!
Quella del cosmopolita Mastroianni è una parabola irripetibile tra gli attori italiani: ha recitato per e con chiunque in più o meno centocinquanta film tra i quali è difficile trovare qualcosa di davvero imbarazzante ed è forse l’unico tra i grandi del suo tempo ad aver chiuso la carriera con suprema dignità. Per dire, negli ultimi dieci anni di attività si è tolto lo sfizio di lavorare in mezzo mondo con nuove leve (Giuseppe Tornatore, Francesca Archibugi) e venerati maestri (Robert Altman, Manoel de Oliveira, Raul Ruiz, Theo Angeolopulos), schizzando ritratti memorabili (Oci ciornie, Verso sera, Sostiene Pereira). E allora, sì, ha senso ritrovare Marcello Mastroianni, specialmente ora che non c’è alcun particolare anniversario tondo da onorare. Diciamolo, è rincuorante che si riesca tuttora a percepire quanto il connubio abbia saputo determinare un’epoca, attraverso atti che non hanno perso un briciolo della loro potenza dinamitarda come La dolce vita e soprattutto 8 ½.
Aspettando il Cinema Ritrovato 2018
Quando arriva il Cinema Ritrovato ci schieriamo in forze, ed ecco perché leggerete dal 23 giugno ai primi di luglio un numero enorme di articoli, vergati dalle nostre firme consuete, con l’aggiunta di alcuni guest critics, di alcuni esperti di sezioni collaterali altrimenti a rischio di oblio, e di alcune firme giovanissime per l’apposito spazio dei futuri critici. La XXXII edizione metterà a dura prova le capacità dei collaboratori, che dovranno correre da una sala all’altra per coprire in poco più di una settimana centinaia di proiezioni. Il Cinema Ritrovato è in fondo il nostro primo interlocutore, l’azionista, il contesto in cui nascemmo come testata, che pure nel tempo ha allargato il proprio raggio d’azione molto al di là delle singole attività della Cineteca di Bologna.
“La truffa dei Logan” e l’attrazione di Soderbergh per la natura umana
La truffa dei Logan è un film di frontiera, quella geografica che divide Boone County in West Virginia da Charlotte in North Carolina, e quella metaforica oltrepassata da Steven Soderbergh con il ritorno al lungometraggio quattro anni dopo il fallace addio al cinema. Una panoramica sugli orizzonti culturali dell’America di Trump ambientata in due delle roccaforti elettorali del tycoon. Gli States, patria delle grandi opportunità, ma non per tutti. Un Paese in crisi che celebra i propri veterani senza riuscire più a prendersene cura e che addobba le proprie figlie con ciglia finte e abbronzatura spray per poi mandarle a ingrossare le fila di agghiaccianti concorsi di bellezza. Le sonorità folk rock di John Denver fanno da tappeto emotivo alla lotta di Jimmy per riappropriarsi della sua dignità di padre, mentre le musiche originali composte da David Holmes – autore della colonna sonora – esaltano i ritmi serrati delle adrenaliniche sequenze d’azione.
L’allegoria senza incanto di “Lazzaro felice”
Oggetto bifido, strambo, sbilenco, il terzo opus della regista sublima – come Garrone – un fatto di cronaca degli anni Ottanta e lavora ancora sulle inenarrabili meraviglie dei corpi celesti, imponendosi per ambizione e densità nel discorso sul sacro. Che magari è solo una suggestione di chi scrive, eppure appare così sottile da risultare davvero centrale. D’altro canto quale dovrebbe mai essere la prima impressione di fronte ad un film che elegge ad eroe titolare un personaggio dal nome tanto eclatante quanto paradigmatico? Ricordiamo che il Lazzaro biblico, resuscitato da Gesù, appare nei Vangeli per testimoniare il miracolo e più avanti per annunciarne l’imminente omicidio su mandato dei Sommi Sacerdoti, in quanto discepolo del Messia. Poi basta. Più che un personaggio, quasi una funzione che innesca – o perlomeno sollecita – il destino del protagonista, cioè colui che gli ha ridato vita.
“Pioggia di ricordi” al Future Film Festival 2018
Tre anni dopo Una tomba per le lucciole, Takahata alza nuovamente l’asticella di un modo di fare animazione al tempo semplicemente impensabile. Chi mai avrebbe sprecato matite e fogli da disegno per delle vicende così tremendamente realistiche, mature, adulte? Chi mai poteva pensare, negli anni dell’esplosione di Akira, di mettere gli strumenti più adatti all’affermazione della fantasia al servizio di una storia fatta di persone come noi che vivono in un mondo come il nostro? Pioggia di ricordi è un racconto dolceamaro che ha il sapore del cinema intimista di Yasujiro Ozu, a cui Takahata è sicuramente debitore, ma forse è con Il posto delle fragole di Ingmar Bergman che possiamo riconoscere ancor più punti di contatto.
“Unsane” al Future Film Festival 2018
Unsane stupisce per la sua capacità di rientrare in un genere senza aderire a stereotipi, consegnando allo spettatore un prodotto estremamente godibile che gioca con i fondamenti di un linguaggio senza stravolgerli. Gli sceneggiatori e Soderbergh costruiscono una trappola ipnotica, un gioco di specchi che rimbalza continuamente il pubblico tra il sano timore del persecutore e il mondo delle nevrosi private del protagonista, facendo intravedere la verità tra un’oscillazione e l’altra. Unsane costituisce un raro esempio di thriller psicologico scritto e diretto evitando i luoghi comuni del genere, un’esperienza interessante e coinvolgente che dimostra come, con un po’ di creatività, si possa instillare nuova vita in un canone oberato da produzioni mediocri.
“Les garçons sauvages” al Future Film Festival 2018
Delirante, immaginifico e dissacrante, Les garçons sauvages è costruito magistralmente: dalla definizione psichica dei personaggi al montaggio, nei passaggi dal bianco e nero al colore e nell’uso di un sonoro eclettico e quanto più vario possibile, dal classico al pop coevo passando per Nora Orlandi. Nelle traslucide sequenze sottomarine Mandico rivelerà poi tutto il suo amore per Jean Vigo, con brevi parentesi in cui uno dei protagonisti sembra quasi imitare l’espressione trasognata di Jean Dasté. Un risultato galvanizzante. Tra le allucinazioni cinematografiche (e cinefile) più belle viste al cinema quest’anno.