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“Il circo” tra comicità e arte popolare

L’indipendenza creativa di cui gode non è affatto cosa comune per l’epoca e Chaplin ne è consapevole, quindi decide di inserire il personaggio del proprietario del circo sempre pronto a licenziare un suo artista, indipendentemente dal suo talento, nel momento i cui smette di riscuotere il favore del pubblico. Insieme a questa amara considerazione sulla popolarità in campo artistico, Chaplin si interroga sul funzionamento della comicità. Sembra suggerire che la comicità nasca dalla naturalezza quanto dalla disposizione d’animo, poiché alla delusione amorosa di Charlot corrisponde l’insuccesso delle sue esibizioni. Sentimentale e riflessivo, Il circo non gode purtroppo della stessa fama del successivo Luci della città, segno del fatto, forse, che le considerazioni di Chaplin erano giuste.

Musidora, tra mito e realtà

Per i personaggi come la diva in maillot noir sembrerebbe verificarsi un curioso fenomeno di presbiopia: più si avvicina lo sguardo a loro e meno sembra di conoscerli. La potenza di tale personaggio – e proprio di “personaggio” si può parlare, non solo di “figura” – risiede anche nella sua capacità di divenire il fulcro di una serie di attribuzioni di significato differenti. Oggi come allora, se si vuole osservare Musidora più da vicino non è possibile ignorare il senso e i valori che, anche inconsapevolmente, le sono stati assegnati nel corso del tempo. Ed è interessante notare come tali elementi siano, nella realtà odierna, piuttosto simili a quelli che le venivano ascritti cento anni fa. Musidora incanta e affascina ancora; la carica rivoluzionaria che esercitava a suo tempo viene percepita tutt’oggi, nonostante le eroine contemporanee siano ben diverse e nonostante le odierne eroine siano ben diverse e si relazionino in modo differente con gli spettatori; l’aura di mistero che la caratterizza e la circonda sembrerebbe essersi mantenuta intatta nonostante il trascorrere del tempo. 

“I topi grigi”: un miracoloso viaggio nel passato

Nel giugno di cento anni fa I topi grigi di Emilio Ghione invasero il labirintico e sotterraneo Cinema Modernissimo di Bologna: oggi, come quel giugno del 1919, ritornano sullo schermo riportati all’antico splendore dal restauro, facendo ancora una volta del Modernissimo la loro “tana” prediletta. Gli otto episodi, distribuiti in varie proiezioni giornaliere che coprono l’intera durata del Cinema Ritrovato, fanno il verso al binge watching contemporaneo, che da solitario diventa comunitario e condiviso e che, per questo, porta con sé una più imponente carica emotiva: ridere all’unisono, tenere il fiato sospeso. L’esperienza è democratica, tutti sono coinvolti allo stesso modo. La pellicola, nonostante i  – circa –  1200 metri mancanti,  rivela un fascino antico anche grazie alla chiarezza espressiva che si rende comprensibile a tutti senza l’uso delle parole. E rende noto al pubblico che nel racconto visivo, per capirsi, a volte il parlato è superfluo. La costruzione stilistica delle immagini è inoltre sancita dai chiaroscuri taglienti che restituiscono figure caricaturali e volti infossati: indimenticabile Ghione sullo schermo, emaciato, spigoloso e magnetico. I topi grigi non esisterebbero senza di lui.

Decisive, imprevedibili, indipendenti: le dark ladies del cinema di Felix E. Feist

Dietro il nome di Felix E. Feist si srotola un cursus honorum che in poco più di vent’anni ha sospinto l’autore newyorkese da un orizzonte filmico all’altro; su una linea che congiunge idealmente il disaster movie Deluge (1933) all’horror sci-fi di Donovan’s Brain (1953), il nostro approdò all’hard boiled solo nel 1947, dopo aver passato gli anni della guerra dirigendo musical e commedie rosa. Pur collocandosi nell’orbita del mondo noir, i quattro titoli selezionati non suonano la stessa musica: se la distinzione tra i b-movies (Devil Thumbs a Ride e Threat) e le due pellicole successive appare come palese all’osservatore, ciononostante essa non rappresenta l’unico elemento di divergenza all’interno dei noir di Feist. 

Il cinema della Trizona e i campi di concentramento

Gli elementi più potenti e sconvolgenti di Di toit milen (I mulini della morte) di Hanuŝ Berger, cortometraggio “educativo” del 1946 che fu tra i primi lavori tedeschi a entrare nei campi di concentramento e guardare in faccia i risultati dell’Olocausto, non sono i cadaveri ammassati, i corpi scheletrici, le fosse comuni o i bambini vittime delle sperimentazioni scientifiche. Non che queste evidenze dell’orrore, ovviamente, lascino indifferenti, ma ciò che più colpisce e turba oggi sono i volti dei cittadini tedeschi. Il film infatti, dopo aver rappresentato ciò che era accaduto tra quelle mura, rafforzando la durezza delle immagini esplicite con una voce narrante altrettanto dura, accusatoria e precisa, racconta il momento in cui le forze alleate decisero di portare i cittadini di Weimar in visita al vicino campo di concentramento di Buchenwald.

“I clowns” e l’euforia felliniana

Per Fellini la crisi del mondo circense era reale. Il suo attaccamento ancestrale a questo mondo era più che reale, viscerale. Nel momento stesso in cui Fellini ci racconta del cinema, ammette di non sapere niente dell’argomento a lui più caro, se non di poter descrivere, per immagini, nell’unico modo a lui congeniale, il mondo di emozioni che il circo aveva suscitato in lui sin da bambino. La paura, lo stupore, il silenzio incantato, poi “il clangore delle trombe”, la folgorazione dello spettacolo grottesco, confusionario, visionario, appunto, dei pagliacci. Il circo e il cinema, ma anche, il circo è il cinema, in una osmosi continua tra le due forme di fantasia parossistica che possedevano il regista.  E infatti “il cinema, voglio dire fare del cinema, vivere con una troupe che sta realizzando un film, non è come la vita del circo”?

 

“Roma” o la necropoli di Federico Fellini

Roma è la ricerca del tempo perduto? “E basta co’ ‘sto Proust!” esclama una signora in platea all’ennesima tirata intellettuale del suo vicino. Per Federico Fellini il passato non è una terra straniera. L’emigrante riminese ricorda tutto e perciò può reinventare la sua stessa vita. Perché, d’accordo, l’esperienza personale, ma Roma è un’esperienza collettiva. E all’autofiction – che, chiaro, Fellini mica chiamava così – serve il documentario – che, chiaro, Fellini certo intendeva a modo suo – per completare una visione che è al contempo autoritratto e panoramica, fumetto e miniatura, memorialistica e aneddotica, flusso di coscienza e sentire comune. Onore a Ruggero Mastroianni, che al montaggio dà una forma al disordine del genio.

“Journey Into Light” al Cinema Ritrovato 2019

Non sarebbe privo di qualche attrattiva, questo Journey into Light (1951) di Stuart Heisler, grazie a una sceneggiatura assai verbosa ma che sviluppa il tema della crisi esistenziale e spirituale in maniera potenzialmente interessante: non si tratta di un classico percorso di caduta dell’eroe e suo ritorno alla Grazia, quanto piuttosto una riflessione sulla mancanza di fede di chi predica bene ma dentro di sé sente poco, e che, messo alla prova dagli eventi, dovrà imparare a superare un risentimento verso il divino che è in realtà un giudizio su se stesso. Non a caso il reverendo alla fine, potendo optare fra il tornare alla vecchia vita in mezzo ai farisei o il rimanere nella nuova fra i peccatori, propenderà senza indugio per la seconda ipotesi.

“Il gatto a nove code” tra sapienti rimandi e sperimentazione

A due anni di distanza dalla riproposizione de L’uccello dalle piume di cristallo, il Cinema Ritrovato 2019 ha deciso di proseguire il percorso dedicato alla celebre trilogia argentiana, riservando agli appassionati del thriller una proiezione serale de Il gatto a nove code. Malgrado tale scelta appaia coerente ed organica, non va dimenticato come il secondo film dell’autore romano abbia sofferto per decenni della sindrome del figlio di mezzo, considerato insoddisfacente dal proprio padre artistico e relegato all’infelice posizione di pellicola minore; fortunatamente, proprio a seguito di una retrospettiva losangelina, lo stesso Argento ha ritrattato i propri giudizi negativi sul lavoro del 1971. 

Virtuosismi e mobilità in “Surrender” e “The Sea Wolf”

La seconda parte della retrospettiva, iniziata lo scorso anno, dedicata dal Cinema Ritrovato ai film prodotti della Fox Corporation a cavallo tra gli anni Venti e i primissimi anni Trenta offre una selezione di film variegata. Offre anche la possibilità di approfondire quella manciata di anni in cui nelle Major statunitensi il cinema classico si stava riformando a livello stilistico, linguistico e visivo. È il periodo in cui il cinema statunitense si stava adattando al sonoro, rimanendo, per così dire, bloccato dall’esigenza della parola e, di conseguenza, da un impianto inevitabilmente teatrale e da una generale staticità. Sono gli anni, quelli a cavallo tra i due decenni, in cui la grammatica classica imponeva le sue regole nella maniera più ferrea, bloccando le cineprese alle esigenze dell’invisibilità. 

Tra Pierino e Fellini: Alvaro Vitali, il trickster italiano

Che si dedichi a una grottesca imitazione di Fred Astaire o a fare il verso alla Gradisca durante l’intero pranzo nunziale, il personaggio di Vitali finisce per confondersi perfettamente con il giovanotto romano dal naso aquilino che lo interpreta. Non è un caso che il ballerino d’avanspettacolo in Roma si chiami proprio Alvaro e giù dal palco faccia, per l’appunto, l’elettricista: con un piede nel sogno e un altro costantemente premuto sull’uscio del reale, Fellini libera il potenziale comico e cinico di un attore che farà del vivere secondo natura il suo leitmotiv principale, e che permetterà ad altre porte di spalancarsi in maniera del tutto spontanea.  La carriera del trickster tutto italiano si è indubbiamente assottigliata, ma l’importanza impudente e provocatoria di Alvaro Vitali resiste – e co-esiste – insieme alla sua corporalità spudorata.

Jean Gabin, tra femmineo e realismo poetico

In effetti, nonostante La vergine scaltra, in cui sembra che i dialoghi rechino l’impronta del sodale di Carné, Jacques Prevert, all’epoca però convalescente, segni una svolta nella carriera stilistica di Carné, l’impressione che si ha guardandolo è che filmi i suoi attori lasciandoli andare, lasciando che la vita svolga il suo corso, dispiegandosi senza una fine definitiva. C’è del realismo in entrambi i film, o anche delle tracce di realismo poetico, se pensiamo al film di Clément, la cui storia è incentrata su un personaggio che rimanda all’idea di eroe tragico, il quale è continuamente destinato a essere sconfitto dal fato. In Le mura di Malapaga emerge inoltre volontà di portare sullo schermo la dura vita del proletariato, considerando il modo in cui viene rappresentata la quotidianità della cameriera Marta e di sua figlia.

Josette Andriot e Musidora, donne iconiche del cinema muto

Due nomi, due icone del cinema muto, due donne: Josette Andriot e Musidora. La seconda forse più conosciuta della prima, le due attrici sono le stelle dei film seriali polizieschi dei primi del Novecento. Entrambe, insieme a Pearl White, vivace e spericolata fotoreporter nel serial statunitense The Perils of Pauline, sono il simbolo di una nuova modernità femminile, che si contrappone all’identità di donne regressive come Mary Pickford o Theda Bara. Ma se per i surrealisti Musidora/Irma Vep era l’incarnazione delle fantasie oniriche dello spettatore, con tutta onestà, la tuta nera di Musidora e, perché no, quella di Josette Andriot, danno l’impressione di essere la pelle di donne nuove e inedite, pioniere di una femminilità ribelle e indipendente.

Intervista a Timothy Brock

In occasione della XXXIII edizione del festival del Cinema Ritrovato abbiamo pensato fare alcune domande al Maestro Timothy Brock, direttore e compositore specializzato nell’accompagnamento dal vivo di film muti e che dal 1999 si occupa di preservare e restaurare le colonne sonore dell’archivio Chaplin. In questi nove giorni di celebrazione del restauro e della passione per il cinema Brock dirige, per ben due volte, l’orchestra del Teatro Comunale. In questa edizione, per il cineconcerto in Piazza Maggiore de Il Cameraman di Buster Keaton, il Maestro ha composto una partitura, per poco meno di venti elementi, arricchita da passaggi musicalmente e sentimentalmente profondi e complessi.

1919, il prezzo delle proprie certezze

Non sempre è bene avere convinzioni inossidabili, perché potrebbe rivoltarsi contro di voi. Cosa fareste se vostra moglie vi tradisse per un altro? Il protagonista de La maschera e il volto (1919) non ha dubbi: ucciderebbe immediatamente la traditrice. Ancora più dura la lezione che ha dovuto imparare il Pubblico Ministero Brückner, grande sostenitore della pena di morte in Misericordia. Cosa fare se ad essere accusato è tuo figlio e non più un perfetto sconosciuto? Cosa ne sarà dei saldi principi di vendetta se in fondo ti senti responsabile per aver negato aiuto a tuo figlio quando ne aveva bisogno? Tante storie, un unico anno e un filo conduttore per ragionare sui diritti e sulle conseguenze di avere una forma mentis chiusa e reticente al cambiamento. La rassegna dei film del 1919 è stata un modo per parlare ancora una volta di attualità, di far ragionare attualizzando storie del passato che tornano prepotentemente attuali sotto gli occhi dello spettatore.

I western di Henry King e la crisi del sogno americano

Se si dovesse considerare la carriera di Henry King in termini solamente quantitativi,  sarebbe da record. Tuttavia, all’interno di questa vastissima produzione  i campi di prova dell’american director nei confronti del western sono stati relativamente pochi. Strano, verrebbe da dire, poiché la qualifica di King di regista-feticcio dello studio system e della golden age del cinema americano implicherebbe in qualche modo un più largo confronto con quello che André Bazin chiamava “il genere americano per eccellenza”. Genere attraverso il quale il cinema americano, più che in qualsiasi altro, ha definito il suo destino storico, il suo mito fondativo, delegando alle vicende del West una sorta di missione storica di definizione dell’ethos americano, che era carente di una grande tradizione letteraria quale invece quella europea o orientale. Spesso descritto come narratore del grande sogno americano, King ha saputo mettere in discussione quel mito, rappresentando eroi outsider che si misurano con le aspettative di una più o meno piccola comunità.

Sotto i cieli di Seul: l’epoca d’oro del cinema sudcoreano

Malgrado l’industria cinematografica in Corea nasca e si sviluppi rapidamente a partire dagli anni Venti del Novecento, solo alla fine degli anni Sessanta, e quindi dopo le alterne vicende storiche, la cinematografia sudcoreana si esprime compiutamente attraverso un gruppo di registi diversi fra loro ed estremamente talentuosi: Kim Ki-young, Yu Hyun-mok, Shin Sang-ok e Kim Soo-yong. A questa generazione di autori, veri e propri maestri, è dedicata la sezione “Sotto i cieli di Seul: l’epoca d’oro del cinema sudcoreano”, che raccoglie e presenta alcuni capolavori di un decennio segnato da uno straordinario rinnovamento sociale, politico e artistico. Si tratta di film che esplorano le possibilità del realismo, del racconto di genere o ancora dell’adattamento letterario, che riflettono alcuni riferimenti cinematografici lontani e precisi, tra cui spiccano i nomi di Rossellini, De Sica e Antonioni, costruendo allo stesso tempo l’estetica peculiare e composita del cinema sudcoreano

“Incendio a Chicago” al Cinema Ritrovato 2019

Città e campagna, modernità e tradizione: sono questi i poli delle tensioni che più informano il cinema di Henry King, che appare oggi più che mai terreno di negoziazione tra istanze contrastanti. In Incendio a Chicago, gli scontri generazionali e di civiltà vengono integrati nella saga familiare degli O’Leary, una “strana tribù” di immigrati irlandesi che figura, metonimicamente, a rappresentante delle pulsioni della società tutta. La loro parabola si instaura sul mito fondativo della capitale del Midwest: Chicago passa da agglomerato fangoso, sperduto nella prateria, a metropoli moderna e sfavillante, corrotta dal vizio e dalla politica. La città assiste all’avvicendarsi di mondi in contrasto, dall’America puritana ai primi gangster, e si fa correlativo oggettivo di tali mutamenti.

“Velluto blu”, incubi in festa a Lumberton

Con Velluto blu, Lynch inizia a creare una mitologia visionaria che annienta il costrutto logico della storia, esasperata da ossessive ripetizioni acustiche, crepitii e ruggiti, e sovralimentata dalle canzoni di Angelo Baladamenti che ricoprono la dimensione ossessiva e ironica del sogno della patina illusoria proveniente da un tempo perduto: basti pensare a In Dreams, eseguita in playback dallo scagnozzo del villain in una sequenza felliniana di grande effetto. Cinema di dettaglio e d’atmosfera, Velluto Blu astrae e decompone la materia narrativa, saltellando dal ripetitivo e stucchevole sogno americano all’incubo di provincia, uniche coordinate per un’esplorazione nei recessi dei Mysteries of love (and death) della cittadina del legno, prima che Twin Peaks ne raccolga l’eredità oscura.

Il cinema della Trizona e la forma della commedia

La sezione dedicata al cinema della Trizona ( appunto, la parte occidentale del paese che tra il 1945 e il 1949 era sotto il controllo statunitense, francese e inglese, e che sarebbe poi nel 1949 diventata la Repubblica Federale Tedesca ) dà in qualche modo l’idea che anche il cinema proponesse strade inedite, che fosse in qualche modo anche lui alla ricerca di un nuovo modo di essere, sperimentando forme e approcci e risultando quindi variegato, vitale e moderno. Guardando certi film selezionati, sorge anche l’idea che questo cinema – tenendo ovviamente conto della varietà che racconteremo in questi giorni – non accogliesse e fotografasse passivamente la realtà cupa del paese e del limbo che stava attraversando, preferendo “aggredirla” e rielaborarla.