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“Rapito” speciale II – Il velo del dogma
L’intera filmografia di Bellocchio è una processione di veli che frappongono l’uomo a una libertà originaria. Ma in ogni suo film riesce a scoprire in maniera nuova le sue figure tipiche, a rimodellare le forme del genere melodrammatico, a rendere sempre più ambiguo il dualismo tra vita e apparenza. Dall’intensificazione spudorata di elementi realistici del melodramma erompono gli incubi reconditi, le pulsioni inconsce, i desideri di autonomia dei soggetti.
“Rapito” speciale I – Le ambizioni del cinema italiano
Sia Rapito sia Esterno notte raccontano la storia di un rapimento, di un atto di violenza verso un individuo, che è in realtà un atto politico e che si lega a doppio filo al contesto storico e socioculturale in cui avviene. Aldo Moro, martire in Esterno notte, è sostituito in Rapito dal piccolo Edgardo Mortara, ebreo sottratto alla famiglia su ordine di Papa Pio IX, per avere un’educazione cattolica. Sullo sfondo c’è il Risorgimento e la lotta contro il potere temporale della Chiesa.
“Gli ultimi giorni dell’umanità” e la poesia della teoria
Il montaggio di Alessandro Gagliardo gioca con la durata e trasforma la “poesia della teoria” di Ghezzi in pratica filmica creando relazioni sorprendenti e generando il senso a partire da un vuoto prodotto dallo scontro di materiali difformi, come nel cinema di Chris Marker o nella produzione video di Jean-Luc Godard. Rispetto a una scomparsa della realtà, l’etica ghezziana cerca ancora di “cogliere la realtà nei brandelli” attendendo fiducioso un nuovo incrocio di sguardi, una nuova relazione con le immagine, una nuova umanità. Di fronte al terrore della fine, ci chiede un ultimo sforzo per trattenere un brandello di realtà, di umanità, di desiderio.
“Il sol dell’avvenire” speciale II – La politica e l’amore
Succede quello che nel cinema di Moretti accade spesso, dai tempi di Aprile, del Caimano, del già citato Mia madre. Che la vita entra nel cinema, cambiando il film che si sta girando, boicottandone le riprese. Si intrufola sul set sotto forma degli oggetti di oggi che continuano a comparire nelle scenografie anni Cinquanta, si oppone alle intenzioni del regista facendo innamorare gli attori, mandando in galera i produttori. Trasformando un film politico in un film d’amore.
“Il sol dell’avvenire” speciale I – Una dichiarazione d’amore
Si riannodano i fili di un percorso cinematografico che dura da cinquant’anni, fatto di idiosincrasie, fissazioni, facce stupite e recitazioni stranianti, viaggi, diari e giornali, canzoni italiane ascoltate, ballate e ostinatamente cantate, di impegno politico dentro e fuori dal set, di film girati o desiderati, di lettere mai spedite e pasticceri trozkisti, di madri reali, immaginate, evocate o sublimate, di attori che sono il corpo e la sostanza stessa di un percorso poetico, in quella che è la più struggente e radicale dichiarazione d’amore verso il cinema che Moretti abbia mai messo in scena.
“La generazione perduta” tra militanza e dipendenza
La generazione perduta restituisce con grande lucidità il profilo di un cronista balzacchiano, affamato di storie e contatti umani, capace come nessun altro di raccontare in presa diretta quei fenomeni e quei fatti dal centro del magma che li generò; ma anche il ritratto di un ragazzo generoso e fiero, pronto a rivendicare una forma privata di nichilismo e segnato da un «coraggio dettato dalla disperazione»: con queste parole lo descrive nel libro Francesca Comencini, che frequentò Rivolta nei suoi ultimi anni ma non ha partecipato al documentario.
“Mia” di nome e di fatto
Ivano De Matteo (al suo settimo lungometraggio) incentra la narrazione su due tematiche: il possesso e i luoghi comuni. Mia non è solo il nome della giovane quindicenne, è anche la rappresentazione di un’idea di appartenenza continuamente ribadita. “È mia, non più tua”, dice Marco a Sergio quando – ormai – pensa di aver acquisito il diritto di rivendicare il suo dominio. Il nome della ragazza, poi, viene ripetuto incessantemente, come a voler insistere sull’idea, in parte anche esasperandola.
“I pionieri” e lo spettro del comunismo
Il comunismo nel film dell’esordiente Scivoletto (che adatta un suon romanzo del 2019, nato però originariamente come soggetto cinematografico) è solo uno spettro. E non uno spettro minaccioso, quello che si aggira per l’Europa foriero di rivoluzioni evocato da Marx ed Engels nell’incipit del Manifesto. Ma il fantasma inquieto di un grande ideale che è già passato e ormai non c’è più, se non nelle convinzioni di chi in quell’ideale ha creduto e per quell’ideale ha combattuto.
“Il ritorno di Casanova” e le scatole cinesi ai limiti del farsesco
Al di là di un’ubiquitaria e modaiola apologia del femminile, Salvatores non sembra ben sapere dove andare a parare esattamente. La sua disamina dell’invecchiamento non possiede né un acume analitico tale da stimolare particolari riflessioni, né una suggestione emotiva in grado di coinvolgere empaticamente lo spettatore. Le storie dei suoi due protagonisti continuamente si interfacciano tra loro sullo schermo, e si concludono entrambe in una sfida antagonistica contro un rivale giovane: c’è chi vince, c’è chi perde, palla al centro.
“Pantafa” nell’incertezza degli archetipi
Sotto un profilo pragmatico Pantafa vorrebbe percorrere il sentiero battuto negli ultimi anni da Paolo Strippoli e Roberto de Feo con le rispettive opere autonome (Piove, 2022 e The Nest, 2019) e con l’ambizioso lavoro congiunto (A Classic Horror Story, 2021), opere che, per quanto non impeccabili, lasciavano trasudare un buon grado di originalità e propensione al rischio. Attributi che si rinvengono a fatica nel secondo lungometraggio di Scaringi, audace negli intenti ma di fatto eccessivamente timoroso e incerto.
“Stranizza d’amuri” e la protezione dello spettatore
Per quanto Fiorello dimostri di cavarsela dietro la macchina da presa, è evidente una certa ripetitività nella raffigurazione di quel tipo di atmosfera caratteristica di coming of age d’ambientazione anni Ottanta – in più di un’occasione la mente di chi guarda va inevitabilmente a Estate ’85 (2020) o Chiamami col tuo nome (2017) – che di certo non aiuta a caratterizzare con originalità un film abbastanza ordinario nella sua confezione.
“Vera” con tutte le sue contraddizioni
Vera è un film che non si guarda per la storia d’amore tossica, gli inganni spiccioli e gli stereotipi, ma perché Vera Gemma è straordinaria. La sua scelta di un’estetica non conforme alle norme e la sua camminata possente sul tacco 12 – enfatizzata da una regia che la asseconda e la segue nel suo muoversi tra audizioni borghesi e la periferia romana – e la sua presenza scenica sono probabilmente le cose che hanno portato Vera alla vittoria nella sezione Orizzonti alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia.
“Le mura di Bergamo” oltre la generazione scomparsa
“Disco Boy” sans-papiers nell’universo dei corpi
Alla fine è tutta una questione di corpi Disco Boy, l’esordio nel lungometraggio di finzione di Giacomo Abbruzzese, premiato per la fotografia di Hélène Louvart all’ultimo festival di Berlino. Contributo fondamentale vista la natura del film, che fa della dimensione visiva il mezzo per raggiungere una stilizzazione che trasformi il particolare in universale, la storia personale in storia collettiva. Corpi, dunque. Senza patria, senza un posto nel mondo, come quello del protagonista.
“L’ultima notte di Amore” e la riscrittura del poliziesco
Dopo le produzioni e le ambientazioni internazionali di Escobar (2014) e The Informer – Tre secondi per sopravvivere (2019), con L’ultima notte di Amore Andrea Di Stefano continua la sua personale indagine nel poliziesco, muovendosi nel panorama italiano e manovrando abilmente ripetizione e innovazione di genere, dalla caratterizzazione dei personaggi ai nuclei dell’intreccio, commentati con sonorità che evocano Bacalov e Cipriani.
“Mixed by Erry” e l’epica del cinema italiano
Mixed by Erry , inoltre, affronta apertamente un tema che negli altri film restava sottotraccia, il disorientamento difronte ai cambiamenti – tecnologici e/o sociali – al cospetto dei quali è necessario reinventarsi. Viene facile affiancare lo sforzo che fanno i protagonisti di questo film per reagire alle innovazioni tecnologiche allo sforzo che Sydney Sibilia e Matteo Rovere continuano a fare da diversi anni per proporre un cinema italiano nuovo, più in linea con la produzione internazionale.
“Laggiù qualcuno mi ama” e la fragilità rivoluzionaria
Laggiù qualcuno mi ama è un film con cui Massimo Troisi, a settant’anni dalla sua venuta al mondo, torna al cinema per essere riascoltato, rivisto, per stare con il suo pubblico ancora una volta e per insegnarci che a volte anche la fragilità può esplodere come tratto umano capace di rivoluzioni silenziose, ma durature. L’universalità del suo messaggio insieme alla misura della sua poetica sono riportate a galla dalla intelligente costruzione martoniana capace di mescolare sapientemente immagini di repertorio, spezzoni di film, contributi televisivi e documenti inediti.
“Le pupille” e lo sguardo dell’innocenza
“Dedico la nomination all’Oscar alle bambine cattive, che cattive non sono affatto e che sono in lotta ovunque nel mondo”, dichiara la regista toscana. È lo sguardo dell’innocenza a colpire ancora una volta, come quello di Lazzaro in Lazzaro felice mentre la fusione della sfera reale e quella della fiaba è il luogo deputato allo spettatore: un luogo dove si arriva silenziosamente, come quelle onde lunghe che si spalmano sulla battigia senza far rumore e levano tutto, tranne la tenerezza.
“Gigi la legge” II. La leggerezza dell’osmosi
La leggerezza del girovagare in questo tempo sospeso ma reale rivela molto più di quello che fa concretamente vedere. Si perdono i personaggi, si allentano i confini della finzione e avviene un’osmosi tra cinema e realtà che con il passare dei minuti ipnotizza lo sguardo di chi ha bisogno di arrivare necessariamente ad una fine. Gigi la Legge termina soltanto per cause di forza maggiore, perché un Gigi continuerà a pattugliare la sua area di competenza anche laddove sembra non essercene alcun bisogno.
“Gigi la legge” I. Da posizione eccentrica
Dopo Apichatpong (L’estate di Giacomo) e Bresson (I tempi felici verranno presto), Comodin sembra qui guardare a un altro “antropologo”, il Bruno Dumont di L’umanità e P’Tit Quinquin. Eppure lo sguardo “spostato” del suo poliziotto di provincia esprime una vitalità inedita, la sua ironia è più solare che provocatoria e non si giunge mai alla soluzione tragica. Piuttosto il suo Gigi si fa simbolo di un mondo totalmente “spostato”, che però lo spettatore non è abituato a riconoscere nella sua innocente singolarità.