“Dalíland” e la distanza tra l’essere artisti e amare l’arte

Mary Harron sembra partire da un presupposto che, dal principio, le serve per assicurarsi una piena riuscita del suo ritratto. Raccontare in una pagina personaggi così complessi è impensabile. Anzi, surreale. E lei, da professionista in biografie ne ha piena consapevolezza. Dalíland è, piuttosto, una riflessione sull’arte inserita in un contesto di atmosfere festaiole, dettami dell’industria culturale che gravano sulla creatività degli artisti, manie, ossessioni e ipocondrie di un genio capace di definirsi e perdere i contorni di se stesso con la stessa naturalezza.

“Sanctuary” e la disparità del potere

Diventa difficile capire se si stia assistendo a un thriller psicologico/erotico, a un sardonico dramma sentimentale o a un’anomala commedia romantica. Ed è forse in questo sfacciato rompicapo che Sanctuary trova la sua cifra più distintiva, dato che lo sviluppo narrativo ricalca molti aspetti di Secretary e la suggestione sulla camera da letto come luogo di verità psicologica suprema, spaventosa da affrontare, è già stata toccata in varie altre sedi, da Ultimo tango a Parigi a Una relazione privata.

“Rapito” speciale II – Il velo del dogma

L’intera filmografia di Bellocchio è una processione di veli che frappongono l’uomo a una libertà originaria. Ma in ogni suo film riesce a scoprire in maniera nuova le sue figure tipiche, a rimodellare le forme del genere melodrammatico, a rendere sempre più ambiguo il dualismo tra vita e apparenza. Dall’intensificazione spudorata di elementi realistici del melodramma erompono gli incubi reconditi, le pulsioni inconsce, i desideri di autonomia dei soggetti.

“Rapito” speciale I – Le ambizioni del cinema italiano

Sia Rapito sia Esterno notte raccontano la storia di un rapimento, di un atto di violenza verso un individuo, che è in realtà un atto politico e che si lega a doppio filo al contesto storico e socioculturale in cui avviene. Aldo Moro, martire in Esterno notte, è sostituito in Rapito dal piccolo Edgardo Mortara, ebreo sottratto alla famiglia su ordine di Papa Pio IX, per avere un’educazione cattolica. Sullo sfondo c’è il Risorgimento e la lotta contro il potere temporale della Chiesa.

La saga aliena oltre la filosofia del fantahorror

Tornano in sala per tre giorni Alien e Aliens – Scontro finale, distribuiti da Lucky Red. Per omaggiare questi due capisaldi della fantascienza dedichiamo qualche riflessione alla saga che hanno inaugurato, fra le più originali e influenti nella storia del genere. Essa rappresenta un grande esempio di fantascienza in grado di proporre un mix di estrema verosimiglianza scenografica e riflessione su temi filosofici, sociologici e tecnologici.

“Peter von Kant” e le lacrime amare della commedia

La sequela dei tableaux vivants, la ricerca ostentata dell’artificio, l’osservazione asettica e distante dei personaggi che servivano a Fassbinder per avvicinarsi alla verità (rendendo il suo film un capolavoro immortale del cinema mondiale) lasciano il posto in Ozon a una estetica sovrabbondante e colorata, in perfetto accordo con i personaggi tragicomici del film più riusciti, come l’amica attrice Sidonie, meravigliosamente camp, e il silente ed impassibile Karl, scalzando con ironia il nichilismo tedesco che contestualizzava l’originale.

“Pacifiction” speciale II – Il piacere dell’infondato

A differenza di La morte di Luigi XIV (2016) qui Serra lavora molto di più con l’identificazione spettatoriale con la star, legando il corpo attoriale a un labirinto narrativo in cui districarsi, trovare uno scopo. Anche il piacere spettatoriale si rivela infondato o, meglio, si rivela proprio come piacere dell’infondato, gioco con le proprie paure, ricerca di rassicurazioni dalle proprie paranoie in immagini che però non chiedono niente allo spettatore. La paranoia infatti si dà solo come atmosfera e non come evento narrativo. Quel che ne risulta è piuttosto un thriller metafisico à la Antonioni in cui è proprio l’incertezza ontologica ciò che genera piacere.

“Pacifiction” speciale I – La minaccia fantasma

Albert Serra si è infatti distinto per uno stile particolare e molto riconoscibile, in cui a una ricerca tecnica ed estetica molto raffinata si unisce la rappresentazione di storie mortifere che si dipanano lentamente, concedendo tutto il tempo allo spettatore per immergersi in un ritmo pacato, fluido e riflessivo. Il tema del potere e dell’immagine degli uomini che lo detengono è ricorrente nella sua filmografia. E torna anche in Pacifiction, che abbandona l’ambientazione storica che aveva contraddistinto tutti i suoi film precedenti per portarci nella Tahiti degli anni ‘90 a seguire le attività del fittizio alto commissario dell’isola De Roller.

“L’amore secondo Dalva” nel buio dell’abuso

L’amore secondo Dalva analizza il rapporto tra soggetto e oggetto, denunciando (senza compromessi) le condizioni abusanti in cui versano tanti minori. È una storia buia – come erano bui i tempi che ha descritto con violenza Bertolt Brecht – quella che la regista (anche sceneggiatrice per il suo primo lungometraggio) mette in scena e da cui lo spettatore vorrebbe difendersi, scappando proprio come Dalva.

“Winter Boy” in bilico tra Eros e Thanatos

Come in La Belle Personne, Christophe Honoré filma i pensieri e le emozioni fluttuanti che esondano rompendo persino gli argini della moralità senza però che il narratore diventi mai inattendibile. Il giovane flâneur non è Zeno Cosini, non gioca attraverso false piste psicanalitiche ma, raccontando e raccontandosi, si “diverte”, nel senso etimologico del termine, volgendosi altrove, allontanandosi da una classica rielaborazione del lutto per esplorare la frenesia di una giovinezza in bilico tra Eros e Thanatos.

“Ritorno a Seoul” e la vita così com’è

Inserito nella rosa dei migliori quindici film internazionali, ma non presente nella cinquina finale agli ultimi Premi Oscar, Ritorno a Seoul, secondo lungometraggio del cambogiano Davy Chou ispirato alla reale esperienza dell’amica Laure Badufle, è la storia di Freddie. Del suo viaggio in Corea del Sud, intrapreso nel tentativo di trovare i genitori biologici. Della ribellione inflessibile alle abitudini mai condivise coltivate dal popolo che non l’ha voluta. Del rifiuto della sofferenza e di un padre contemplato di rado, in un passato brulicante di demoni non sopiti.

“Lynch/Oz” e la moltitudine di sguardi

Lynch/Oz, una vera e propria esegesi critica di Alexandre O. Philippe. Ambasciatore del film-saggio (dalla “scena della doccia” in Psycho al rapporto contorto che intercorre tra George Lucas e i suoi fan), Philippe emerge dall’ultima fatica sulla Monument Valley e il suo ruolo nella storia del cinema per un documentario decisamente ambizioso. Sì, perché come sempre accade con i lavori “cinemaniaci” di Philippe, Lynch/Oz finisce per sconfinare e diventare un irresistibile compendio sull’eredità morale ed estetica de Il Mago di Oz nella cinematografia contemporanea.

“Alice, Darling” sul filo del rasoio tra thriller e dramma

Per il suo debutto nel lungometraggio, Mary Nighy porta sugli schermi Alice, Darling con la perfetta fidanzatina d’America Anna Kendrick, quasi a dimostrazione di come anche nel mainstream la sensibilità sul tema dell’abuso nelle relazioni di coppia sia decisamente cambiata rispetto ai tempi di A letto con il nemico (1991). Se là tutto si giocava sul piano della violenza fisica, ora invece siamo sul piano di quella eminentemente psicologica.

“Guardiani della Galassia Vol. 3” più adulto e riuscito

I fan della saga e della Marvel in generale avranno motivo di apprezzare Guardiani della galassia vol. 3, un grande more of the same realizzato con gusto, conclusione dell’unica serie MCU con una coerenza stilistica interna. Considerando Guardiani della galassia vol. 3 come opera autonoma, ci si trova dinnanzi a un ottimo film d’intrattenimento con una buona profondità drammatica e che non fa soffrire affatto le sue due ore e mezza di lunghezza.

“Gli ultimi giorni dell’umanità” e la poesia della teoria

Il montaggio di Alessandro Gagliardo gioca con la durata e trasforma la “poesia della teoria” di Ghezzi in pratica filmica creando relazioni sorprendenti e generando il senso a partire da un vuoto prodotto dallo scontro di materiali difformi, come nel cinema di Chris Marker o nella produzione video di Jean-Luc Godard. Rispetto a una scomparsa della realtà, l’etica ghezziana cerca ancora di “cogliere la realtà nei brandelli” attendendo fiducioso un nuovo incrocio di sguardi, una nuova relazione con le immagine, una nuova umanità. Di fronte al terrore della fine, ci chiede un ultimo sforzo per trattenere un brandello di realtà, di umanità, di desiderio.

“Mediterranean Fever” come riflessione sulla finitezza

Mediterranean Fever, miglior sceneggiatura a Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022, è una riflessione sulla finitezza, sul dramma del saper vivere proposto con un’impronta personale supportata da un’ironia cechoviana che esalta il privilegiato egoismo e il libero lamento. C’è, poi, l’inquietudine delicata della questione palestinese vissuta da cittadini arabi nello Stato d’Israele, ma non si trasforma in una discussione (inesauribile) sui massimi sistemi, né assume un tono incattivito, e tantomeno “bellico”.

“Cane che abbaia non morde” e il cinema del sottosuolo

Riconosciamo l’insolubilità di registri (satira sociale, melodramma domestico, orrore suburbano) che Bong eredita dalla contradditoria storia dell’industria cinematografica coreana. Il regista di Taegu esplora con curiosità etologica il sottosuolo strutturale e morale del proprio paese (forse di ogni paese), brulicante di affaristi, pusillanimi e idealisti delusi, con toni tanto violenti e onirici quanto parodici presi in prestito da Panelstory di Vera Chytilova, sorta di novellino sui prefabbricati sovietici in costruzione.

“Suzume” e il terremoto nell’immaginario

Balza subito allo sguardo e all’orecchio la parola chiave che è il filo conduttore di Suzume, ultima fatica di Makoto Shinkai: terremoto. Un lutto non ancora del tutto superato quello del Grande terremoto del Giappone orientale del 2011 e ancora in corso di elaborazione dopo più di dieci anni. Se in La casa degli smarriti sul promontorio (Shinya Kawatsura, 2021) il sisma è solo il punto di partenza di un percorso di guarigione individuale, in Suzume il sottotesto traumatico viene mantenuto vivo e alimentato da un viaggio disperato contro il tempo.

“Mon Crime” ultimo tassello della trilogia femminista di Ozon

Liberamente ispirato all’omonima pièce teatrale del 1934 (scritta da Georges Berr e Louis Verneuil), il film rende omaggio sia al teatro coevo che alla leggerezza della screwball commedy dell’epoca d’oro del cinema hollywoodiano anni Trenta e Quaranta, una fortunata formula plasmata da registi tedeschi come Ernst Lubitsch e Billy Wilder, premiatissima dai botteghini, fatta di dialoghi serrati e toni caustici tra i due sessi che decostruiscono gli stereotipi di genere, gag inverosimili e improvvisi colpi di scena.

“L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice” e la coazione a ripetere

La filmografia di Alain Guiraudie è caratterizzata dal binomio tra concreto ed inconscio, capace di tenersi in sospeso tra le due “soluzioni”. Ne L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice si (ri)presentano le caratteristiche del suo cinema: l’erotismo, la dimensione del sogno che consente alla temporalità di mantenersi indefinita, spesso priva di segni identificativi, i rituali scanditi da atti sempre uguali che trasformano i personaggi in pedine.

“Beau ha paura” in un’odissea con una vita in mezzo

Beau ha paura è un’odissea con una vita in mezzo (una nascita all’inizio e una morte alla fine). Il punto A è l’appartamento di Beau e il punto B è la casa della madre. Nel tragitto ci sono un’altra casa e un bosco. Poi dei senzatetto minacciosi, genitori apprensivi e compagnie teatrali espansive. I luoghi sono suddivisi con ordine e ritmo, il resto è un labirinto in cui tutto riconduce alla madre, ma rimanda sempre al protagonista.