“In the Mood for Love” e l’amore irrealizzato

Il lavoro dell’analista era descritto da Sigmund Freud come un lavoro di ricostruzione, che affidandosi a dettagli e ripetizioni aiuta a ritrovare un qualcosa di perduto. Wong Kar-wai in In the Mood for Love si muove in quella direzione, riflettendo, a partire da quegli elementi e utilizzando il cinema, sui ricordi e cercando di ricostruire la memoria personale e collettiva. La Storia di Hong Kong e la storia di Chow e Su si trovano ad osservarsi e sfiorarsi, come i protagonisti stessi, riflettendosi a vicenda in uno specchio d’amor perduto e irrealizzato. 

“Una viaggiatrice a Seoul” indifferente alle convenzioni cinematografiche

Attraverso un digitale lo-fi che predilige la luce naturale e l’improvvisazione tra gli attori Hong fa vivere palpabilmente gli stati d’animo che accompagnano il riconoscimento o il rifiuto (è il caso della madre del ragazzo) dell’alterità, e ancor più la tenerezza imprevista che una mano sulla spalla o la lettura condivisa di una poesia possono ispirare. La ripetizione, con minime ma significative variazioni, di battute e atteggiamenti fa parte di quella maieutica dell’emotività illustrata anche dalle lezioni di francese.

“We Live in Time” tra amore, morte e sorrisi

Un mix di riconoscibilità e tenerezza, che strizza l’occhio al pubblico a cui si rivolge, che la cosiddetta sick lit la conosce o magari la consuma fin da adolescente, così come conosce 500 giorni insieme e le manic pixie dream girls di cui Almut porta i segni. Un po’ di ironia dolceamara non guasta mai per sdrammatizzare temi come l’amore e la morte, e qualche risata per bilanciare le lacrime è un giusto compromesso. 

“Diva Futura” e la favola di un porno che non esiste più

Il film circumnaviga gran parte delle domande che potrebbero sorgere, preferendo concentrarsi sul racconto di una favola tutto sommato scanzonata e dolceamara di un uomo che sognava troppo in grande per il Paese in cui viveva. Ripensando a Supersex (la serie su Rocco Siffredi uscita su Netflix) viene da chiedersi se il 2024 sia l’anno in cui l’Italia cerca di fare pubblicamente pace con il porno

“The Brutalist” speciale III – Traiettorie di sguardi e verticalità di visione

È un progetto situazionale che rincorre lavorando su un piano materiale e analogico, girando e proiettando in pellicola (in alcune sale anche in Italia), lavorando su una lunga durata (tre ore e mezza), nella quale è prevista anche una fine primo tempo (all’interno del film stesso). Un film che ribadisce, a partire dalla sua natura materiale e dai processi realizzativi e riproduttivi coinvolti, il suo statuto di cinema-cinema (che guarda in alto, per l’appunto, e che è guardato dal basso, come da usanza, che sovrasta).

“The Brutalist” speciale II – Epos dello sradicamento

Perché The Brutalist non fa altro che seguire la scia del brutalismo architettonico per colmare di senso ogni interstizio rimasto incorrotto, ogni pensiero vergine nell’era industriale e capitalistica di cui László è vittima. Sinfonia distorta del “mondo grande e terribile” di gramsciana memoria, The Brutalist procede in mezzo a “petrose” rime (memorabile la sequenza a Carrara) e al minimalismo del Bauhaus che dà forma concreta alle geometrie stentoree del comando.

“The Brutalist” speciale I – Il cinema della modernità

Al suo terzo lungometraggio da regista, Brady Corbet cementifica la sua concezione del cinema come specchio epicizzante della modernità. Terzo lungometraggio e terza biografia fittizia di una personalità simbolo della propria epoca, la cui vita diventa spunto drammatico per uno squarcio sul mondo l’ha portata all’emersione. Questo è The Brutalist, il lavoro produttivamente più ambizioso del regista e affermazione definitiva della sua autorialità.

“Ciao bambino” lontano dal folklore

Se Napoli è spesso rappresentata cinematograficamente come uno spazio urbano rumoroso, affollato e ininterrotto, casermone dopo casermone, su cui mettere le mani, Ciao bambino, coerentemente con il suo progetto di decostruire il folklore della malavita, ci mostra invece sorprendentemente i silenzi e gli spazi vuoti, come l’enorme piazzale dove Anastasia viene fatta prostituire.

“The Girl with the Needle” nel nome di una crudeltà estetizzante

Ispirato al caso di Dagmar Overbye, condannata per aver commesso, nella Danimarca degli anni Venti, nove infanticidi– probabilmente, venticinque, non completamente appurati, in mancanza di prove – The Girl with the Needle, riprendendo a partire dall’incipit il meglio di registi quali Ingmar Bergman (Persona), Friedrich Wilhelm Murnau (L’ultima risata) e Tod Browning (Freaks), esordisce squadernando un montaggio di volti.

“Io sono ancora qui” tra politica del lutto e fragilità delle immagini

Io sono ancora qui restituisce la complessità umana e politica del trauma delle famiglie dei desaparecidos costruendo un percorso di immagini che si deteriorano: dai momenti felici dei Paiva prima della detenzione e dell’uccisione di Rubens, rappresentati da fotografie e rulli di pellicola bruciati, fino alla brusca discesa negli inferi delle prigioni militari dove Eunice Paiva e la figlia Eliana vengono detenute e interrogate.

“Babygirl” e la commedia travestita da thriller

Babygirl sembra quindi voler parodizzare le dinamiche classiche del rapporto capo-assistente, nel tentativo di sdoganare quelle che vengono percepite come “perversioni” sessuali, oggi non più materiale da thriller, ma elemento comico. La dura e robotica donna, incastrata nei suoi ruoli (madre modello/ moglie perfetta/ inscalfibile leader aziendale), impara il piacere della vulnerabilità da persone più giovani, che crede invece di dover proteggere.

“Luce” del cinema tra realtà e finzione

C’è un’immediatezza comunicativa e visiva in grado di sollevare un sentimento di umanità empatica nei confronti di coloro che tentano di approfondire la propria esistenza al di fuori delle mura della fabbrica. In Luce la responsabilità di questa missione è affidata alla sola voce del padre che, nel suo oscillare tra vero e falso, tra realtà e immaginazione, restituisce alla protagonista quel ruolo di figlia protetta, sgridata e amata che non ha mai interpretato.

“Il mio giardino persiano” che sfida il regime

Il mio giardino persiano è un  film di piccoli gesti audaci (l’invito di uno sconosciuto a casa accolto senza hijab, il vino bevuto insieme, balli mano nella mano, abbracci e carezze preambolo di una seduzione in divenire) e dialoghi ironici sottilmente allusivi alla condizione dei personaggi, al loro futuro e a quello di un Paese la cui irrisione diventa esorcizzazione della paura, ma al contempo fiducioso auspicio di cambiamento.

“A Complete Unknown” e il rifiuto di dare spiegazioni

Non importa sapere chi sia davvero Bob Dylan, che cosa abbia fatto nella vita, o come sia diventato ciò che è (e guai a chiedergli da dove vengano le sue canzoni): il punto è proprio l’inafferrabilità. A maggior ragione, una volta raggiunto un certo status, una volta che il ragazzino diventa Dylan, il personaggio inizia a nascondersi. Indossa quel paio di occhiali quasi fossero il cappello di Clint Eastwood nella trilogia del dollaro

“L’uomo nel bosco” speciale II – L’alternativa misericordiosa

Come nel Cielo brucia di Petzold, anche qui il protagonista assonnato è troppo preso dal proprio mondo per vedere la catastrofe planetaria in atto, ma piuttosto che ambientale qui la catastrofe è morale: è il vuoto d’amore che non si vuole riconoscere e che si cerca di colmare, per mascherarne la natura. In un estremo atto lirosofico, attraverso la finzione cinematografica, Guiraudie offre un’alternativa gratuita, misericordiosa, al proprio eroe riconnettendo verità di ragione e conoscenza d’amore.

“L’uomo nel bosco” speciale I – La forza del desiderio

Come nel precedente, Lo sconosciuto del lago (2013), il bosco si fa custode dei segreti, delle pulsioni vitali e mortifere dei personaggi. I rappresentanti dell’ordine costituito vagano in cerca di risposte, occultate da una natura complice dei più atroci delitti. Bisogna morire e lasciarsi morire per poter rinascere, come i simpatici funghi che gli abitanti raccolgono incessantemente, unici testimoni, rivelatori di morte, ma simboli di vita e di trasformazione.

“Wolf Man” e il peso dell’eredità

Questa volta è proprio l’orrore a essere carente e pur riuscendo a raccontare una storia straziante, nelle sequenze prettamente horror sembra mancare l’ispirazione, ricorrendo ai soliti canonici jumpscare e le classiche fughe dell’ultimo minuto, troppo prevedibili per avere un reale impatto. Ciononostante, Whannell si dimostra ancora una volta originale nel rapportarsi ai classici e nel suo stravolgerli, in un film che fa del rapporto con l’eredità culturale lasciata dai padri la sua tematica centrale.

“No Other Land” speciale II – Quando l’audiovisivo diventa un’arma

A colpire soprattutto di No Other Land è la perfetta simbiosi tra la crudezza di quello che mette in scena e la grande portata simbolica del dispositivo che utilizza per raccontare questa storia, vale a dire la cooperazione tra l’attivista palestinese Basel e il giornalista israeliano Yuval, uniti per denunciare l’ingiustizia perpetrata dall’esercito israeliano contro gli abitanti di Masafer Yatta, una zona collinare della Palestina via via sempre più sotto il controllo degli organi militari.

“No Other Land” speciale I – Distruggere e ricostruire l’umanità

L’alternanza di sequenze frenetiche e altre riflessive, lo spazio dato all’ampiezza dei paesaggi polverosi della Cisgiordania ma anche ai volti dei testimoni, e in genere l’attenzione a certi dettagli e ad alcuni dialoghi rivelatori iscrivono il documentario, certamente non avendolo meditato in anticipo, a una tradizione militante e civile, che fa capo a Joris Ivens, dove chi tiene la camera in mano mette a repentaglio la propria vita.

“Amerikatsi” metaforico e metafilmico

In questi tempi di guerre occultate, genocidi negati e minacce totalitarie, un film come Amerikatsi di Michael A. Goorjian è certamente tempestivo per obbligarci ad una riflessione su questi temi, anche attraverso uno stile personale contraddistinto da un’ironia surreale e straniante che getta uno sguardo non convenzionale sul genocidio armeno e sul successivo processo di rimpatrio incoraggiato da Stalin.

“L’abbaglio” del popolo italiano

L’intento del regista ricorda intellettualmente quello compiuto nel saggio Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (1824) di Giacomo Leopardi, dove il filosofo tratteggia – senza troppo delicatezza – il carattere opportunista che contraddistingue l’allora inesistente popolo italiano. Nel film, questo disvelamento viene filtrato in maniera edulcorata proprio dal nucleo comico che si costituisce in Domenico e Rosario.