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“Cocainorso” e l’irriverenza creativa

Cocainorso è straniante, ma non privo di un certo fascino. Nella sua esuberanza senza freni e nella mancata ricerca di un compromesso tra violenza e comicità, le quali non sono sintetizzate ma sovrapposte, il film riesce nel suo proponimento di intrattenere senza particolare sforzo. E lo fa secondo le proprie regole, esagerando ma senza dare l’impressione di perdere totalmente il controllo, concedendo finanche degli sporadici momenti di tenerezza che suonano da contrappunto ristoratore alla cacofonia dominante.

“Il sol dell’avvenire” speciale II – La politica e l’amore

Succede quello che nel cinema di Moretti accade spesso, dai tempi di Aprile, del Caimano, del già citato Mia madre. Che la vita entra nel cinema, cambiando il film che si sta girando, boicottandone le riprese. Si intrufola sul set sotto forma degli oggetti di oggi che continuano a comparire nelle scenografie anni Cinquanta, si oppone alle intenzioni del regista facendo innamorare gli attori, mandando in galera i produttori. Trasformando un film politico in un film d’amore.

“Il sol dell’avvenire” speciale I – Una dichiarazione d’amore

Si riannodano i fili di un percorso cinematografico che dura da cinquant’anni, fatto di idiosincrasie, fissazioni, facce stupite e recitazioni stranianti, viaggi, diari e giornali, canzoni italiane ascoltate, ballate e ostinatamente cantate, di impegno politico dentro e fuori dal set, di film girati o desiderati, di lettere mai spedite e pasticceri trozkisti, di madri reali, immaginate, evocate o sublimate, di attori che sono il corpo e la sostanza stessa di un percorso poetico, in quella che è la più struggente e radicale dichiarazione d’amore verso il cinema che Moretti abbia mai messo in scena.

“Amira” e la fotografia come atto di resistenza  

In Amira si presenta la necessità di raccontare mantenendo, però, sempre una profonda aderenza alla realtà. Di indagare le radici di un odio che non si può risolvere soltanto in una questione genetica. Diab vuole raccontare una e più verità, come diceva Pirandello in una delle sue commedie più conosciute, “Così è (se vi pare)”: “La verità non ha volto, e ha tanti nomi quante sono le persone. “Chi sono?”, diceva un personaggio, “Io sono colei che mi si crede”.

“I passeggeri della notte” leggero come una piuma

È leggero come una piuma Passeggeri della notte, e ciò è probabilmente il suo più grande pregio e il maggior difetto. Gli anni Ottanta vengono restituiti da Hers accostando differenti grane e formati in maniera molto libera, utilizzando anche immagini d’archivio e riprese ex novo volutamente imperfette con una fotocamera Bolex, senza darsi alcuna pena di uniformità tecnica, ricreando il periodo con naturalezza, all’impronta. Non mancano qua e là degli omaggi: il più evidente è quello a Le notti della luna piena di Éric Rohmer.

“La generazione perduta” tra militanza e dipendenza

La generazione perduta restituisce con grande lucidità il profilo di un cronista balzacchiano, affamato di storie e contatti umani, capace come nessun altro di raccontare in presa diretta quei fenomeni e quei fatti dal centro del magma che li generò; ma anche il ritratto di un ragazzo generoso e fiero, pronto a rivendicare una forma privata di nichilismo e segnato da un «coraggio dettato dalla disperazione»: con queste parole lo descrive nel libro Francesca Comencini, che frequentò Rivolta nei suoi ultimi anni ma non ha partecipato al documentario. 

“Mia” di nome e di fatto

Ivano De Matteo (al suo settimo lungometraggio) incentra la narrazione su due tematiche: il possesso e i luoghi comuni. Mia non è solo il nome della giovane quindicenne, è anche la rappresentazione di un’idea di appartenenza continuamente ribadita. “È mia, non più tua”, dice Marco a Sergio quando – ormai – pensa di aver acquisito il diritto di rivendicare il suo dominio. Il nome della ragazza, poi, viene ripetuto incessantemente, come a voler insistere sull’idea, in parte anche esasperandola.

“I pionieri” e lo spettro del comunismo

Il comunismo nel film dell’esordiente Scivoletto (che adatta un suon romanzo del 2019, nato però originariamente come soggetto cinematografico) è solo uno spettro. E non uno spettro minaccioso, quello che si aggira per l’Europa foriero di rivoluzioni evocato da Marx ed Engels nell’incipit del Manifesto. Ma il fantasma inquieto di un grande ideale che è già passato e ormai non c’è più, se non nelle convinzioni di chi in quell’ideale ha creduto e per quell’ideale ha combattuto.

“As Bestas” e l’istinto animale del presente

Sorogoyen realizza un film sui divari sottili del nostro presente, scendendo in profondità nelle motivazioni, alle origini degli strappi. Come i lentissimi e quasi impercettibili zoom in che ricorrono nel film, As Bestas delinea il particolare, partendo da un tutto che già di per sé era circoscritto. L’investigazione sembra nascere nel rapporto tra spettatore e personaggi. Sorogoyen si avvicina agli intrecci con lunghi dialoghi, discussioni e confronti per scovare l’estremamente umano che allo stesso tempo è estremamente “bestiale”.

“Air – La storia del grande salto” nel canestro del capitalismo sano

Come nelle sue precedenti pellicole, Affleck si circonda di un comparto tecnico di prim’ordine, che il regista sceglie di sfruttare in modo non propriamente autoriale, ma artigiano. Non è verso l’autorialità che desidera andare, ma verso il divertito omaggio a tempi e valori che furono, schematizzati e ridicolizzati negli orrendi mocassini di Vaccaro e nelle fluorescenti fisse sportive di Knight, ed elevati nella visione di futuro di entrambi e della famiglia Jordan. Born in the U.S.A.

“La cospirazione del Cairo” e i meccanismi che sostengono il Potere

La cospirazione del Cairo, vincitore a Cannes 2022 per la migliore sceneggiatura, ci presenta la realtà di un mondo che – per eccellenza – dovrebbe essere il punto di riferimento morale dell’intera sfera islamica, senza demonizzarla, raccontando con rigore, conservando una profonda onestà. Non fornisce soluzioni, né si accanisce contro i “potenti”. Tarik Saleh insiste su un’idea di cinema non “bellico”, ma che rivendica il bisogno di libertà e informazione.

“L’appuntamento” con la storia e le sue ferite

L’appuntamento, presentato nella sezione “Orizzonti” della 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, diretto dalla regista e scenografa macedone Teona Strugar Mitevska, affronta in maniera inconsueta e ironica, tramite il registro del black humor, il tema della memoria, del perdono e dei traumi della guerra che vide a metà degli anni 90 il disgregarsi della ex Jugoslavia e il sanguinoso fronteggiarsi di religioni ed etnie differenti, rendendo nemici gli abitanti di una stessa città, la splendida Sarajevo.

“Leila e i suoi fratelli” dentro il teatro di guerra domestico

Da una parte simile ad altre eroine struggenti, quali Neeta e Keiko, protagoniste rispettivamente di La stella nascosta (Ritwik Ghatak, 1960) e Quando una donna sale le scale (Mikio Naruse, 1960), Leila, interpretata non per nulla da Taraneh Alidoosti. Leila, consapevole ciononostante delle fratture interne alla famiglia e spettatrice tutt’altro che distaccata dei denti di una morsa che stringe da ogni lato. Dall’altra Esmail, coltivatore di un sogno irrealizzabile e di una speranza dai giorni infiniti, con gli ornamenti e i tessuti dell’attesa. Il teatro di guerra, un’umile casa che scotta di febbre, sdraiata anch’essa in un torpido dormiveglia.

“Terra e polvere” ci insegna a demolire e ricostruire

Cos’è più forte dell’apatia? Quale sentimento può restituire un’immagine potente, complessa e completa, della vita in un luogo in ricostruzione? Youtie e Guiying vivono in una zona poverissima nel nord-ovest della Cina. Lui è un contadino, l’ultimo della sua famiglia ancora celibe; lei - sterile e con una disabilità - ha superato l’età considerata idonea per non avere ancora un marito. Decidono di sposarsi, tramite un matrimonio combinato. Quell’incontro forzato si trasforma in...

“La chiamata dal cielo” di Kim Ki-duk oltre la morte

Realtà, fantasia e tutta la tensione che persiste quando le due dimensioni si sovrappongono: a ben vedere, la trama potrebbe essere considerata la summa di gran parte della poetica di Kim Ki-duk. Girato nel 2019 in Kirghizistan e portato a termine dopo la prematura scomparsa del regista per complicazioni da COVID-19, finisce per rappresentarne il testamento. Ma se il girato è tutta farina del suo sacco, le scelte legate alla finalizzazione dell’opera e alla sua post-produzione sono state affidate completamente agli amici e colleghi.

“Il ritorno di Casanova” e le scatole cinesi ai limiti del farsesco

Al di là di un’ubiquitaria e modaiola apologia del femminile, Salvatores non sembra ben sapere dove andare a parare esattamente. La sua disamina dell’invecchiamento non possiede né un acume analitico tale da stimolare particolari riflessioni, né una suggestione emotiva in grado di coinvolgere empaticamente lo spettatore. Le storie dei suoi due protagonisti continuamente si interfacciano tra loro sullo schermo, e si concludono entrambe in una sfida antagonistica contro un rivale giovane: c’è chi vince, c’è chi perde, palla al centro.

“Pantafa” nell’incertezza degli archetipi

Sotto un profilo pragmatico Pantafa vorrebbe percorrere il sentiero battuto negli ultimi anni da Paolo Strippoli e Roberto de Feo con le rispettive opere autonome (Piove, 2022 e The Nest, 2019) e con l’ambizioso lavoro congiunto (A Classic Horror Story, 2021), opere che, per quanto non impeccabili, lasciavano trasudare un buon grado di originalità e propensione al rischio. Attributi che si rinvengono a fatica nel secondo lungometraggio di Scaringi, audace negli intenti ma di fatto eccessivamente timoroso e incerto.

“Il frutto della tarda estate” e come resistere senza spezzare i rami 

Quello di Sehiri è espressione di un cinema che più di tutto è interessato ad aderire alla realtà, esplorandola senza stereotipi. In Il frutto della tarda estate emerge una paradossale contraddittorietà, tra spazio privato e pubblico, evoluzione e involuzione, libertà e asservimento. Ci si concede la possibilità di esprimersi attraverso silenzi rivelatori o confessioni impellenti, in un’alternanza tra il buio e la luce, quella che penetra tra i rami. E sono proprio i rami ad essere più di tutto protetti, mai spezzati: come se dovessero resistere, proprio come i lavoratori.

“Stranizza d’amuri” e la protezione dello spettatore

Per quanto Fiorello dimostri di cavarsela dietro la macchina da presa, è evidente una certa ripetitività nella raffigurazione di quel tipo di atmosfera caratteristica di coming of age d’ambientazione anni Ottanta – in più di un’occasione la mente di chi guarda va inevitabilmente a Estate ’85 (2020) o Chiamami col tuo nome (2017) – che di certo non aiuta a caratterizzare con originalità un film abbastanza ordinario nella sua confezione.

“Vera” con tutte le sue contraddizioni

Vera è un film che non si guarda per la storia d’amore tossica, gli inganni spiccioli e gli stereotipi, ma perché Vera Gemma è straordinaria. La sua scelta di un’estetica non conforme alle norme e la sua camminata possente sul tacco 12 – enfatizzata da una regia che la asseconda e la segue nel suo muoversi tra audizioni borghesi e la periferia romana – e la sua presenza scenica sono probabilmente le cose che hanno portato Vera alla vittoria nella sezione Orizzonti alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia.