“Bella Ciao” nel giro del mondo e della canzone
Certe canzoni fanno il giro del mondo, gli etnomusicologi lo sanno bene. Non girano solo “intorno”, per usare un’espressione cara a Ivano Fossati, ma in lungo e in largo adattandosi alle varie situazioni che trovano nei luoghi che abitano. Questo è certamente il caso di Bella Ciao e il film di Giulia Giapponesi cerca di tenere il passo con una traiettoria di diffusione decisamente sui generis di una musica che si è fatta simbolo. La storia di Bella Ciao però è particolare e nel documentario sono i partigiani Giorgio e Maso a ricordare il dettaglio che molti scordano: durante la resistenza la si cantò pochissimo (anche se i casi ci sono) e la si cantò molto dopo.
“Il muto di Gallura” d’onore e di vendetta
Il film di Matteo Fresi, un gioiello cinematografico che sotto il pretesto di una diatriba locale racconta invece l’universale inclinazione dell’essere umano alla difesa del proprio status sociale, tesse la sua fluida e tesa narrazione lungo dicotomie come amore e morte, guerra e pace, uomini che si fanno giustizia da sé per difendere l’onore come chiede la tradizione e uomini dello Stato che provano a portare sull’isola una giustizia legalizzata (ma “chi ne ha mai visti di re in Gallura?”). Per quanto divise dalle questioni d’onore e di vendetta, le due famiglie allargate che si contrappongono costituiscono un vero e proprio microcosmo sociale, esaminato da Fresi nella sua immanenza storica
“Calcinculo” o una spinta amorevole?
Calcinculo, l’opera seconda di Chiara Bellosi, presentata nella sezione Panorama dell’ultima Berlinale, è un film che merita di essere visto dalla più ampia platea di pubblico. Si tratta di un teen movie in piena regola, perché parla di adolescenti, amori non corrisposti, confusioni identitarie e brutti anatroccoli che un giorno potrebbero diventare magnifici cigni. Ma non strizza l’occhio a certo cinema mainstream o più scopertamente commerciale, che di fatto usa il tema dell’adolescenza per solleticare i narcisistici ricordi dei bei tempi che furono nell’animo di un pubblico molto più che teen, nostalgico e giovanilista, ostinatamente restio ad accettare di crescere ed invecchiare.
“Tutte a casa” e il lockdown silenzioso delle donne
In Tutti a casa di Comencini erano gli uomini a tornare a casa dopo la dichiarazione dell’armistizio del ‘43. In Tutte a casa invece il rientro e lo stallo nelle proprie domestiche abitazioni è coercitivo ed ineludibile per le donne, di un momento storico precedente la cosiddetta emancipazione femminile, nel quale le donne stavano a casa non per scelta, ma per costrizione. La guerra sembra essere stavolta quella che opera internamente agli animi delle persone di sesso femminile dilaniate, a causa della pandemia, da una spaccatura sempre più concreta tangibile e materiale, fra la donna (che vive, lavora, si svaga) fuori di casa, e la donna domestica (che tutt’al più si prende cura degli altri).
“Il filo invisibile” dal privato al pubblico della famiglia omogenitoriale
Con questo film Puccioni innesta il linguaggio della finzione in un percorso documentaristico, forse per prendere le distanze dall’elaborazione creativa di un soggetto troppo personale, sicuramente per ampliare l’ideale pubblico di un discorso che prima di essere narrativo è fondamentalmente sociale e politico. Ecco allora la drammatizzazione (il tradimento, la crisi di coppia, l’assunzione delle proprie responsabilità verso il partner e verso il figlio) per sostenere un’idea tanto semplice quanto ancora rivoluzionaria: le famiglie arcobaleno sono esattamente come le famiglie tradizionali tanto nell’armonia quanto nella disarmonia.
“Il giovane corsaro” e la formazione dell’intellettuale Pasolini
Il giovane corsaro non è solo Pasolini e Bologna: uno degli intenti del film, ovvero della sua tesi sull’intellettuale, è anche quello di far conoscere Pasolini alle giovani generazioni per contrastare la diffusione di una non cultura che suole liquidare la controversa figura del poeta attribuendogli definizioni sbrigative e limitate che lo stigmatizzano. Il rapporto difficile di Pasolini con la sua omosessualità nasceva forse da un fattore culturale o dal rapporto col padre austero e fascista, nei confronti del quale egli ricordava che “tutto ciò che c’è di ideologico nelle mie opere dipende dalla lotta con il padre”. Lo stesso Edipo re era stato il film con cui Pasolini aveva raccontato e sublimato il suo complesso di Edipo.
“Occhiali neri” e le tenebre rétro di Dario Argento
Questo Occhiali neri farà storcere qualche naso, perlopiù in quanto espressione di un cinema di genere relegato al passato o a gruppi di appassionati, ma era dai tempi di Nonhosonno che Argento non dimostrava tanta sicurezza. Chi cerca un clue puzzle rigoroso, o complessi intrecci basati sulla psicologia deviante, farà meglio a cercare altrove. Già dall’esordio con L’uccello dalle piume di cristallo, oltre mezzo secolo orsono, i personaggi di Argento subiscono il processo creativo più che avvantaggiarsene, complici sceneggiature non prive di sbavature e un generale scarso interesse nella direzione degli attori.
“Leonora addio” oltre Pirandello e dentro la memoria dei Taviani
Primo film diretto unicamente da Paolo Taviani dopo la scomparsa del fratello Vittorio, Leonora addio è un intenso e complesso omaggio a Pirandello, che attraversa tutto il cinema dei Taviani dall’indimenticato Kaos (1984) al meno riuscito Tu ridi (1998), ma anche all’altro grande filone tematico che ha, da sempre, interessato i due registi: il cinema militante e la cultura antifascista e resistenziale italiana, da La notte di San Lorenzo (1982) fino a Una questione privata (2017). In ultima analisi, il film è una riflessione sentita e personale sulla memoria e sul ricordo, cinematografico e personale, artistico e biografico, storico e di celluloide.
“L’ombra del giorno” e del fascismo
Con L’ombra del giorno Giuseppe Piccioni gira un film che torna a parlare di fascismo, ma lo fa con una attenzione particolare alla possibile rilettura della storia in chiave attualizzante, suggerendo un unico comun denominatore fra due epoche storiche (i primi anni ‘40 del ‘900 e l’oggi) quasi involontariamente affiancate in un parallelismo emotivo/cognitivo, quello di un esasperato conformismo portato alle estreme conseguenze. Del resto L’ombra del giorno è stato girato durante il lockdown 2020 in un’Ascoli deserta, rappresentata dalla grandezza monumentale di una delle più belle piazze rinascimentali, piazza del Popolo appunto, che qui assume un sapore quasi internazionale.
Il cinema duro dell’Italia in nero. “Il legionario” di Hleb Papou
I modelli a cui Papou si ispira sono presumibilmente ACAB di Stefano Sollima e lo scioccante Diaz di Daniele Vicari, ma Il legionario ha qualcosa anche de I miserabili di Ladj Ly, in particolare per la rappresentazione delle tensioni razziali. Rispetto ai due suddetti film italiani, l’opera prima del giovane regista può contare su un budget più ridotto (anche se ci sono alle spalle produzioni serie come Fandango e Rai Cinema, dunque non è un indipendente qualsiasi), e in questi casi voler girare sequenze d’azione può comportare il rischio di celebrare le nozze coi fichi secchi: ma Papou evita questa trappola e sa ottimizzare perfettamente i mezzi che ha disposizione attraverso particolari accorgimenti registici.
“Una femmina” nel paese dei ciechi
Presentato a Berlino, nella sezione Panorama, Una femmina è l’esordio dietro la macchina da presa del cosentino Francesco Costabile, testimone e narratore della piaga mafiosa calabrese. Ispirato al volume-inchiesta di Lirio Abbate Fimmine ribelli, il film è dedicato “a tutte le femmine ribelli” e “a tutte le vittime della ‘ndrangheta”. La storia, il cui soggetto è di Edoardo De Angelis e Abbate, penetra fin nel profondo della cruda esistenza mafiosa ai margini della società, fino a diventare essa stessa parte del paesaggio, buia e spigolosa, in equilibrio tra sfocature ed ellissi che non ammettono sprazzi di luce, in cui ogni riverbero si consuma sulla pietra tagliente e si strozza sulle rive riarse.
“Dal pianeta degli umani” e il cinema di pensiero di Giovanni Cioni
In un montaggio d’impulso, associativo, la storia procede via via in una stratificazione temporale e materica: dai filmati d’archivio allo sci-fi degli anni ’40, dai filmini domestici e rivieraschi agli occhioni lucidi di anfibi notturni: il cinema di Cioni non è tanto di parola quanto di pensiero, un discorso che si muove libero tra le diapositive e le voci narranti — che sfiorano i saggi di Chris Marker — e il ragionamento individuale mosso secondo la logica chiusa e inoppugnabile della riflessione privata, dell’investigazione personale condivisa in fieri.
“Piccolo corpo” II – L’avventura metafisica
Nel mondo di Piccolo corpo facciamo ingresso attraverso l’onda sonora: un coro femminile che ci accoglie sulla spiaggia dove Agata, prossima a partorire, consegna ritualmente il proprio sangue all’acqua del mare. Il ciclo naturale che assume la forma di una liturgia cantata: due mesi dopo la ballata favolistica di Re granchio, ecco un altro film che trova nella cultura folkloristica una lettura personale e che usa il canto rurale come via di accesso verso ecosistemi inesplorati. È forse il principio di un nuovo, curioso filone del nostro cinema d’autore, un piccolo universo filmico intento a recuperare il passato e a ridargli corpo e voce con l’impeto della giovane autorialità.
“Piccolo corpo” I – Gesto silenzioso e profondo
Il film è sintetico e silenzioso, aderente ai toni brulli della terra anche nella sua messa in scena, povera di colori e parca di movimenti, ma ricchissima di immagini simboliche. I gesti quotidiani del remare, camminare, bere dalle fonti e sporcarsi il viso di terra per non essere visti dalla montagna nelle cui viscere si vuole passare, sono tutti fondamentali nel procedere della protagonista, nella sua autoconsapevolezza e nella sua espiazione del dolore. Piccolo corpo è un’opera di rara profondità, che passa proprio grazie alla trattazione semplice e priva di orpelli, che ci conduce passo passo accanto al percorso di Agata, il cui desiderio è non solo la liberazione del male dal corpo della piccola, ma il sogno di poterla un domani riabbracciare.
Ennio Morricone visto da Giuseppe Tornatore. La storia musicale del cinema italiano
Ennio è il mastodontico documentario sulla vita, le opere e la musica del grande maestro Morricone, scomparso all’età di 92 anni la scorsa estate, capace di cavalcare nell’arco della sua esistenza, storia personale, sociale e cinematografica del suo Paese e non solo, proprio come fanno i grandi personaggi. Una vita per la musica, capace di intrecciarsi a doppio filo con la storia del cinema italiano ed internazionale, un’intera esistenza dedicata ad una vera e propria missione “sottotraccia”: dare dignità di opera d’arte alla musica per film.
“Fellini e l’Ombra” evocazione onirica del Maestro
Fellini e l’Ombra ha innanzitutto il merito di essere, probabilmente, il primo film a trattare con cognizione di causa il rapporto di Fellini con i sogni e la psicanalisi, il suo mondo interiore e più nascosto, il “Fellini sommerso”, cioè quell’Ombra del titolo che va rigorosamente in maiuscolo, come a voler identificare un’essenza quasi vivente. Ma ciò che colpisce della regia di Catherine McGilvray è anche la pluralità di linguaggi usati, con uno stile e un montaggio volutamente schizofrenici, non lineari, perché solo così è possibile parlare di una materia impalpabile come i sogni.
“America Latina” tra allucinazioni e verità
America Latina, tra perdite di fiducia in sé stesso prima, e negli altri poi, allucinazioni e verità, assume toni cupi, tra contrasti di luce che ne fanno un thriller psicologico a tinte verdi e rosse che gioca con l’orizzontalità e verticalità delle immagini. La macchina da presa, lenta e sinuosa, centellina le visioni d’insieme di spazi asettici, restando addosso a Massimo per coglierne le sfumature, ansie e paure che lo hanno reso un uomo a metà, al contempo sviscerate in maniera netta nell’incontro col solitario e scorbutico padre, specchio di ciò che non vuole essere ma che forse purtroppo è già. I D’Innocenzo imbastiscono il racconto non lasciando nulla al caso.
Tra epica e realismo. Il bilancio dell’universo Gomorra
Gomorra – La serie è l’incontro più contemporaneo tra epica e realismo, come testimonia già dalla prima stagione l’episodio ispirato all’omicidio di Gelsomina Verde. Ma il successo della formula non è di stampo documentario, tutt’altro. Anzi, si può dire che risieda proprio nell’aspetto epico della saga familiare, dove “familiare” sta per sangue, eredità che si può tradire e difendere. Piramidi solo all’apparenza patriarcali che subiscono un continuo capovolgimento dei ruoli, laddove si sfruttano conformità e convinzioni per far saltare piani e strutture. Patti labili stipulati in nome di interessi, somiglianza, inganno, dove se la lealtà è richiesta non è mai prevista.
“Diabolik” e il fotogramma come fumetto
I fratelli Manetti dipingono una versione degli anni Sessanta che guarda ai grandi maestri del cinema, da Mario Bava a Dario Argento e soprattutto Alfred Hitchcock, diversamente da come lo avrebbe fatto un manierista come Luca Guadagnino. Decidono infatti di inquadrare gli attori e le atmosfere con uno sguardo fumettistico. Questo Diabolik non vuole essere un film tratto da un fumetto, ma sembra quasi voler continuare ad essere un fumetto. E sla “lentezza” della narrazione che in molti stanno criticando negativamente è per i Manetti una scelta nella resa dell’immagine di voler catturare quel momento e imprimerlo in fotogrammi come se fosse disegnato e stampato su carta.
“Re granchio” apre nuove direzioni per il cinema italiano
Parlando di questo film si è fatto riferimento al realismo magico così come alla ricostruzione antropologica, ma forse dovremmo spingerci ancora oltre perché questi film usano un contesto storico, più o meno aderente al vero, nel tentativo di immergerci in una riflessione filosofica, in una astrazione che ci riporti all’essenza dell’umano attraverso personaggi in cui possiamo riconoscerci, di cui possiamo ridere e soffrire prendendone le vicende come moderni racconti epici. In questa prospettiva anche Jauja di Lisandro Alonso (2014), Aferim! di Radu Jude (2015), A Lullaby to the Sorrowful Mistery di Lav Diaz, (2016), Monte di Amir Naderi (2016), Zama di Lucrecia Martel (2017), rispondono alle sensibilità dei singoli registi e non rientrano semplicemente nelle categorie del film storico.
Zerocalcare autore totale. “Strappare lungo i bordi” e la generazione invisibile
I problemi dei “giovani d’oggi”, il precariato, gli amori confusi, la sensazione di essere mille passi indietro rispetto a chi riesce a concretizzare rapidamente le proprie aspirazioni, il futuro indefinito, la morte e il suicidio sono solo alcuni dei numerosi aspetti che Zerocalcare analizza con brutale schiettezza, calandoli uno per uno in ciascun episodio e incatenandoli a una trama orizzontale, quale percorso di crescita e di formazione dello Zerocalcare uomo e personaggio, dall’infanzia e dall’amicizia, all’età adulta e all’esperienza dell’elaborazione del lutto. La forza e il successo di Zerocalcare, autore totale, non risiedono solo nel talento artistico, immaginifico e produttivo, ma nel raccontare la nostra realtà per quella che è davvero, mai perfetta come vogliamo far credere.