La poetica del desiderio. Un bilancio del cinema di Matteo Garrone

Quella di Matteo Garrone è una carriera estremamente interessante da studiare in un’ottica di sperimentazione e di eclettismo. Nei suoi oltre vent’anni di carriera Garrone ha cambiato genere cinematografico molte volte, finendo così per essere associato non tanto ad una tipologia di racconto, quanto ad una precisa prospettiva artistica sul mondo. Garrone non ha studiato cinema; la sua formazione è nella pittura e ciò è evidente in tutti i suoi film.

Potere e follia. Ancora su “Rossosperanza”

In un mondo tendente all’uguaglianza asettica e pronto ad abbracciare il nuovo millennio, la speranza di Annarita Zambrano è forse quella di far vincere per una volta quello che abbiamo rimosso o confinato in edifici facilmente identificabili con Villa Bianca, luoghi in cui si è cercato di perseguire l’eliminazione riscontrata da Basaglia. Soffocare conduce alla morte, è risaputo, ma che bello sapere che sullo schermo si può allentare la morsa violenta e lasciare che i corpi degli oppressi reagiscano non soltanto narrativamente ma anche con il sangue.

“Rossosperanza” e la borghesia viziata

Attraverso uno spaccato anni Novanta un po’ grottesco e un po’ idillico, Rossosperanza accompagna lo spettatore in un mondo dalle tinte gotiche e glam, nel quale lo sfarzo e l’eccesso diventano l’emblema di quel berlusconismo che ha delineato l’immagine nazionale. Gli elementi della mondanità sono tutti presenti: i club, le droghe sintetiche, la prostituzione e una borghesia romana bacchettona e ipocrita.

“Come pecore in mezzo ai lupi” e il paesaggio urbano instabile

Coinvolgente opera prima di Lyda Patitucci che, per i numerosi pregi, meriterebbe una distribuzione anche nella stagione autunnale, Come pecore in mezzo ai lupi stravolge gli equilibri del genere e di genere, presentando una donna poliziotto definita dal suo lavoro più che non dalle sue relazioni, e un criminale maschile fragile e introspettivo. Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli utilizzano al meglio la sceneggiatura di Filippo Gravino per un ritratto a specchio e complementare dei due fratelli.

Bologna e Molise in doc al Biografilm 2023

This Is Bologna di Lucio Apolito e Alvise Renzini narra i luoghi del capoluogo emiliano che sono destinati a sparire. Negozi di barbieri, cinema a luci rosse e locali di musica punk, consapevoli del fato avverso, tentano comunque di sopravvivere mentre la città cambia intorno a loro. Anche il Molise, quella piccola regione di cui molti mettono da sempre in dubbio l’esistenza, manifesta con forza il suo essere reale – e soprattutto vivo. Luigi Grispello, come i colleghi bolognesi, nel documentario Molise tropico felice presenta al pubblico quei paesini che ai nostri occhi non hanno futuro, ma che, per chi li vive, sono semplicemente immortali.

Il cinema favoloso di Roberta Torre

Vivere la vita secondo le proprie regole e proteggere la propria libertà sono temi che riaffiorano in tutta la filmografia della regista milanese; i titoli si sviluppano nell’universo sognante che il suo stile cinematografico crea: la sua regia alimenta la sospensione dell’incredulità, i suoi film sono illusioni infrangibili. Nel cinema di Roberta Torre si riconosce un’atmosfera fiabesca per quanto riguarda la messa in scena e la caratterizzazione dei personaggi: elementi fantasiosi, personalità sui generis, ambientazioni tanto vere quanto surreali e racconti che si sviluppano sul labile confine tra realtà e finzione.

“Denti da squalo” in difficile equilibrio tra simboli e realismo

Denti da squalo è tutto giocato su una stratificazione di significati simbolici, oltre che dal referente concreto. Così lo squalo viene a rappresentare la paura del vivere, la violenza che dobbiamo impersonare per farci rispettare, ma anche il suo contrario, l’anelito verso la libertà e il rifiuto di costrizioni e modelli sociali. Allo stesso tempo, lo squalo è anche un personaggio della narrazione a cui imprime una svolta finale certamente di presa emotiva, pur se non molto credibile.

“Billy” e gli spazi della solitudine

“Bisogna pur credere in qualcosa, anche se non esiste”, dice la madre a Billy. Questa, sembra essere la stessa constatazione che ha permesso alla regista di portare avanti il suo progetto apparentemente focalizzato su un unico personaggio, ma, in realtà, corale e di fare della semplicità la sua inattaccabile cifra stilistica. Semplicità – e modestia dei mezzi – che rimandano anche alla fotografia di Luigi Ghirri, a cui la regista ha espressamente dichiarato di ispirarsi.

“Rapito” speciale II – Il velo del dogma

L’intera filmografia di Bellocchio è una processione di veli che frappongono l’uomo a una libertà originaria. Ma in ogni suo film riesce a scoprire in maniera nuova le sue figure tipiche, a rimodellare le forme del genere melodrammatico, a rendere sempre più ambiguo il dualismo tra vita e apparenza. Dall’intensificazione spudorata di elementi realistici del melodramma erompono gli incubi reconditi, le pulsioni inconsce, i desideri di autonomia dei soggetti.

“Rapito” speciale I – Le ambizioni del cinema italiano

Sia Rapito sia Esterno notte raccontano la storia di un rapimento, di un atto di violenza verso un individuo, che è in realtà un atto politico e che si lega a doppio filo al contesto storico e socioculturale in cui avviene. Aldo Moro, martire in Esterno notte, è sostituito in Rapito dal piccolo Edgardo Mortara, ebreo sottratto alla famiglia su ordine di Papa Pio IX, per avere un’educazione cattolica. Sullo sfondo c’è il Risorgimento e la lotta contro il potere temporale della Chiesa.

“Gli ultimi giorni dell’umanità” e la poesia della teoria

Il montaggio di Alessandro Gagliardo gioca con la durata e trasforma la “poesia della teoria” di Ghezzi in pratica filmica creando relazioni sorprendenti e generando il senso a partire da un vuoto prodotto dallo scontro di materiali difformi, come nel cinema di Chris Marker o nella produzione video di Jean-Luc Godard. Rispetto a una scomparsa della realtà, l’etica ghezziana cerca ancora di “cogliere la realtà nei brandelli” attendendo fiducioso un nuovo incrocio di sguardi, una nuova relazione con le immagine, una nuova umanità. Di fronte al terrore della fine, ci chiede un ultimo sforzo per trattenere un brandello di realtà, di umanità, di desiderio.

“Il sol dell’avvenire” speciale II – La politica e l’amore

Succede quello che nel cinema di Moretti accade spesso, dai tempi di Aprile, del Caimano, del già citato Mia madre. Che la vita entra nel cinema, cambiando il film che si sta girando, boicottandone le riprese. Si intrufola sul set sotto forma degli oggetti di oggi che continuano a comparire nelle scenografie anni Cinquanta, si oppone alle intenzioni del regista facendo innamorare gli attori, mandando in galera i produttori. Trasformando un film politico in un film d’amore.

“Il sol dell’avvenire” speciale I – Una dichiarazione d’amore

Si riannodano i fili di un percorso cinematografico che dura da cinquant’anni, fatto di idiosincrasie, fissazioni, facce stupite e recitazioni stranianti, viaggi, diari e giornali, canzoni italiane ascoltate, ballate e ostinatamente cantate, di impegno politico dentro e fuori dal set, di film girati o desiderati, di lettere mai spedite e pasticceri trozkisti, di madri reali, immaginate, evocate o sublimate, di attori che sono il corpo e la sostanza stessa di un percorso poetico, in quella che è la più struggente e radicale dichiarazione d’amore verso il cinema che Moretti abbia mai messo in scena.

“La generazione perduta” tra militanza e dipendenza

La generazione perduta restituisce con grande lucidità il profilo di un cronista balzacchiano, affamato di storie e contatti umani, capace come nessun altro di raccontare in presa diretta quei fenomeni e quei fatti dal centro del magma che li generò; ma anche il ritratto di un ragazzo generoso e fiero, pronto a rivendicare una forma privata di nichilismo e segnato da un «coraggio dettato dalla disperazione»: con queste parole lo descrive nel libro Francesca Comencini, che frequentò Rivolta nei suoi ultimi anni ma non ha partecipato al documentario. 

“Mia” di nome e di fatto

Ivano De Matteo (al suo settimo lungometraggio) incentra la narrazione su due tematiche: il possesso e i luoghi comuni. Mia non è solo il nome della giovane quindicenne, è anche la rappresentazione di un’idea di appartenenza continuamente ribadita. “È mia, non più tua”, dice Marco a Sergio quando – ormai – pensa di aver acquisito il diritto di rivendicare il suo dominio. Il nome della ragazza, poi, viene ripetuto incessantemente, come a voler insistere sull’idea, in parte anche esasperandola.

“I pionieri” e lo spettro del comunismo

Il comunismo nel film dell’esordiente Scivoletto (che adatta un suon romanzo del 2019, nato però originariamente come soggetto cinematografico) è solo uno spettro. E non uno spettro minaccioso, quello che si aggira per l’Europa foriero di rivoluzioni evocato da Marx ed Engels nell’incipit del Manifesto. Ma il fantasma inquieto di un grande ideale che è già passato e ormai non c’è più, se non nelle convinzioni di chi in quell’ideale ha creduto e per quell’ideale ha combattuto.

“Il ritorno di Casanova” e le scatole cinesi ai limiti del farsesco

Al di là di un’ubiquitaria e modaiola apologia del femminile, Salvatores non sembra ben sapere dove andare a parare esattamente. La sua disamina dell’invecchiamento non possiede né un acume analitico tale da stimolare particolari riflessioni, né una suggestione emotiva in grado di coinvolgere empaticamente lo spettatore. Le storie dei suoi due protagonisti continuamente si interfacciano tra loro sullo schermo, e si concludono entrambe in una sfida antagonistica contro un rivale giovane: c’è chi vince, c’è chi perde, palla al centro.

“Pantafa” nell’incertezza degli archetipi

Sotto un profilo pragmatico Pantafa vorrebbe percorrere il sentiero battuto negli ultimi anni da Paolo Strippoli e Roberto de Feo con le rispettive opere autonome (Piove, 2022 e The Nest, 2019) e con l’ambizioso lavoro congiunto (A Classic Horror Story, 2021), opere che, per quanto non impeccabili, lasciavano trasudare un buon grado di originalità e propensione al rischio. Attributi che si rinvengono a fatica nel secondo lungometraggio di Scaringi, audace negli intenti ma di fatto eccessivamente timoroso e incerto.

“Stranizza d’amuri” e la protezione dello spettatore

Per quanto Fiorello dimostri di cavarsela dietro la macchina da presa, è evidente una certa ripetitività nella raffigurazione di quel tipo di atmosfera caratteristica di coming of age d’ambientazione anni Ottanta – in più di un’occasione la mente di chi guarda va inevitabilmente a Estate ’85 (2020) o Chiamami col tuo nome (2017) – che di certo non aiuta a caratterizzare con originalità un film abbastanza ordinario nella sua confezione.

“Vera” con tutte le sue contraddizioni

Vera è un film che non si guarda per la storia d’amore tossica, gli inganni spiccioli e gli stereotipi, ma perché Vera Gemma è straordinaria. La sua scelta di un’estetica non conforme alle norme e la sua camminata possente sul tacco 12 – enfatizzata da una regia che la asseconda e la segue nel suo muoversi tra audizioni borghesi e la periferia romana – e la sua presenza scenica sono probabilmente le cose che hanno portato Vera alla vittoria nella sezione Orizzonti alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia.

“Le mura di Bergamo” oltre la generazione scomparsa

Le mura di Bergamo separano la parte alta dalla parte bassa della città. Separando, definiscono una comunità di persone che vive in uno stesso territorio. Allo stesso tempo però evidenziano una frattura entro il tessuto cittadino e una distanza tra i diversi cittadini di Bergamo. Messe in relazione con un condominio qualunque della Bergamo sotto assedio pandemico nel marzo 2020 quella frattura comunitaria si estende a ogni abitazione. Costretti a vivere isolati, i bergamaschi vivono una condizione...