“Quattro notti di un sognatore” distillato bressoniano

Se nell’impianto narrativo Quattro notti di un sognatore resta alquanto fedele al racconto di Dostoevskij, l’atmosfera è invece un distillato di rarefazione bressoniana: intorno a pochi elementi ricorrenti e quasi astratti (il ponte, il fiume, il bateau mouche, le insegne luminose) la flânerie sentimentale di Jacques e Marthe tarda a diventare reale, mentre gli intermezzi dei giovani che suonano sui marciapiedi o sull’imbarcazione funzionano come veri e propri entr’acte che dilatano ulteriormente l’attesa.

“Café Elektric” da Marlene a Marlene

Sebbene Marlene Dietrich non ricopra il ruolo di diretta protagonista nei film muti di fine anni Venti, la sua presenza scenica è fin da subito preponderante. Nonostante l’aspetto estetico ancora abbastanza semplice, i lunghi balli a ritmo di jazz, i primi piani e i mezzi primi piani esaltano un’energia tale per cui il passaggio da Marlene a Marlene Dietrich e da attrice a diva risulta estremamente naturale. Nessuna forzatura o imposizione, solo l’autentica evoluzione di un’icona.

“Deriva a Tokyo” tra parodia e indagine esistenziale

Il racconto del vagabondaggio di “fenice” Tetsu, ex yakuza braccato da un clan rivale per la sua fedeltà al suo vecchio boss, fornisce a Suzuki il pretesto per indagare e parodiare l’incertezza esistenziale di quegli anni. La sobrietà di Tetsuo si staglia visivamente fra architetture espressioniste e scenografie coloratissime, ambienti e oggetti artificiosi, fieramente esibiti per il gusto di una modernità autocelebrativa

“Gioventù perduta” e la borghesia criminale di Germi

Gioventù perduta bilancia questa prima illustrazione di una classe borghese criminale, che verrà ripresa successivamente da Antonioni ne I vinti (1953) e in film ormai dimenticati come Gioventù alla sbarra (1953) di Ferruccio Cerio e I colpevoli (1957) di Turi Vasile, affiancando alla storia del delitto quella dell’indagine. Questa seconda dovrebbe mostrarci la speranza di chi, per citare il pressbook, “per il bene combatte con coraggio e lealtà”.

“I corpi presentano tracce di violenza carnale” e l’invenzione dello slasher

Si rimane più colpiti dall’inedito livello di gore degli omicidi che dalle idee proposte. È durante l’ultimo atto, quando gli spazi aperti lasciano il posto alla claustrofobia di una villa in campagna, che l’opera evolve in qualcosa di nuovo e l’effetto d’insieme sublima la somma delle sue parti. Qui Martino, insieme al Reazione a catena di Mario Bava, inventa di fatto lo slasher prima dei vari Non aprite quella porta, Halloween o Black Christmas.

“Intrigo internazionale” in equilibrio perfetto e immortale

Nonostante l’elenco chiaramente riduttivo, per quanto ci si sforzi di enumerare gli ingredienti esatti è difficile riuscire a individuare l’esatta alchimia grazie alla quale Hitchcock ha dato vita a uno dei suoi capolavori senza tempo. Ancor oggi Intrigo internazionale gode di un intatto stato di grazia, di un equilibrio perfetto fra spionaggio, commedia sofisticata e sentimentale, fra suspense e ironia, fra leggerezza e riflessione esistenziale e sociale.

Chiedi chi era Amadeus

Qual è il vero argomento di Amadeus che Truffaut, in barba alla morte imminente, desiderava tanto vedere al cinema? Di gloria, di arte ma soprattutto d’ingiustizia. L’ingiustizia perpetuata da Dio, da quell’entità trascendente che fa sì che i risultati, per cui tu persona seria hai pregato e lavorato sudando sette camicie, il tuo collega (amorale, odioso, spendaccione, poco cresciuto e “farfallone amoroso”) li ottenga senza sforzo. 

Ricordare Enrico Caruso con “Mio cugino”

Il film è un flop al botteghino e un insuccesso di critica e viene rapidamente ritirato dalle sale. Sicuramente la delusione del pubblico è dovuta alle grandi aspettative di avere lo stesso Caruso in sala a cantare dal vivo Vesti la Giubba durante la scena de I Pagliacci: alla gente interessa sentire la voce di Caruso, un po’ meno conoscere le imprese comico-amorose di un italiano qualunque nella vasta giungla newyorkese. In ogni caso, proprio noi spettatori di oggi possiamo ascoltare la voce di Enrico Caruso nell’aria di Leoncavallo, grazie alla più recente operazione di restauro che ha permesso di sincronizzare al meglio la sua voce con il labiale. 

“The Animal Kingdom” tra identità e generi

La fiaba moderna di Thomas Cailley musicata da Andrea Laszlo de Simone riflette sulla corporeità umana mischiando la crudezza del mondo animale con la storia di una famiglia alle prese con la propria disgregazione. Scritto prima della pandemia eppure sensibile alle tematiche del contagio e dell’isolamento, The Animal Kingdom non ha potuto servirsi del nuovo lessico sanitario ma è riuscito ugualmente a comprendere il doppio rapporto della malattia con l’identità e la collettività.

“Life Is Beautiful” e il potere globale dei media

Life Is Beautiful diventa uno strumento per perseguire il medesimo obbiettivo: questa pellicola racconta l’esilio di un uomo e la sua impossibilità di riabbracciare i propri cari, qualcosa che non si lega esclusivamente alla Palestina – in fondo, i riferimenti alla situazione di Gaza sono ridotti al minimo indispensabile – ma che parla a un pubblico potenzialmente globale. La sofferenza di Jabaly diventa la nostra sofferenza, perché riporta alla nostra mente sensazioni che abbiamo già vissuto

“Turn in the Wound” e la poesia del dolore

È davvero una creatura aliena il documentario geo-politico Turn in the Wound di Abel Ferrara, presentato alla Berlinale 2024 nella sezione Berlinale Special e al festival bolognese Biografilm 2024, che fonde le drammatiche immagini della guerra in Ucraina e le parole dei soldati, dei superstiti che vivono nelle zone di combattimento e quelle del presidente Zelensky con la voce di Patti Smith, icona pop- rock americana, che recita opere di Artaud, Daumal e Rimbaud.

“Attenberg” all’inizio dell’onda greca

Attenberg, diretto da Athina Rachel Tsangari, è una delle pietre miliari della Greek Weird Wave, corrente che riunisce molti dei lavori del cinema greco degli anni 2010. Un nome, quello del nuovo cinema greco, che è spesso associato a quello di Yorgos Lanthimos, che con i suoi primi lavori, quali Kynetta, Alps e Kynodontas (di cui Tsangari è produttrice) ne è rappresentante di spicco, e che in Attenberg smette i panni di regista per spostarsi davanti alla macchina da presa.

“Cerchi” e le storie di chi rimane

Il documentario di Ferri racconta nello specifico la Fondazione emiliano romagnola per le vittime di reato, una realtà che da diversi anni si occupa di fornire sostegno in varie forme ai parenti di vittime di omicidio o a sopravvissuti di reati gravi. Quello che si presenta quindi come un evidente documento di promozione di questa attività riesce comunque a trovare uno spazio per raccontare le soggettività dei suoi personaggi.

“L’Impero” di Dumont, poema eroicomico per immagini

Più che meritato Orso d’argento alla Berlinale, L’Impero è un oggetto filmico non identificabile. Come in anni recenti hanno fatto The Grandmaster di Wong Kar-wai per le arti marziali o La ballata di Buster Scruggs dei Coen col western, si tratta di un film che, sfondando allegramente le distinzioni tra i generi e le regole dell’industria, insieme alle aspettative della critica e le abitudini del pubblico, scombina tanto l’esperienza cinematografica contemporanea quanto ogni legittimità della sua interpretazione.

“The Lost Notebook” e il cinema come impronta digitale

The Lost Notebook non racconta il cinema in quanto tale, ma quello che significa il cinema per noi. Il film di Sørensen non vuole essere un trattato di storia del cinema – anche se ogni tanto viene offerto un gradito ripasso – ma piuttosto una riflessione su come l’esperienza che noi facciamo dei film ci dica molto di noi e della società che abitiamo. Il cinema diventa innanzitutto una finestra sulla Storia.

Almodóvar tra materia e immagine

La compresenza di elementi apparentemente distanti, la contaminazione tra scenari familiari e atmosfere stranianti potrebbe essere impiegata per descrivere il cinema stesso di Almodóvar, costantemente sospeso tra corpo e simbolo, materia e immagine, spettacolo e intimismo. I film della rassegna Corpi in prestito (Kika, Il fiore del mio segreto, Parla con lei, La Mala Educación e Volver) sono una summa delle sfumature che compongono il cinema di Almodóvar, ma soprattutto sono un percorso attraverso il quale è possibile ricostruire l’evoluzione formale e tematica del regista iberico.

“Reas” e la danza della comunità

Tutti i personaggi del film, illuminati da una inaspettata poesia, rinascono insieme in un flusso costante di nuovi sodalizi e legami, vivendo con coraggio e con consapevolezza il proprio corpo, spesso tatuato coi nomi di amori del passato; la forza ritualizzata delle pratiche di voguing e di cumbia villera nel cortile del carcere, le performance con la band pop-rock nelle anguste stanze della prigione, diventano per ognuno di loro fonte di empowerment e potente affermazione del sé.

“Kinds of Kindness” speciale II – L’inconscio tumultuoso della società

I personaggi di Lanthimos non sono padroni delle proprie azioni, sono schiavi delle loro angosce che li perseguitano anche nell’intimità dell’atto sessuale, rappresentato dal regista sempre come un momento disturbante in cui si esercita un rapporto di potere. Se è vero che l’arte è espressione dell’inconscio tumultuoso della società in un dato momento storico, allora si può dire che Kinds of Kindness sia il riflesso spaventoso del presente, un incubo in cui prendono forma le nostre paure più grandi.

“Kinds of Kindness” speciale I – L’hula hoop d’autore

La libertà che Lanthimos si è giustamente conquistato viene investita in un interessante esercizio dove alcune delle modalità di rappresentazione del regista vengono scritte e riscritte provando delle varianti. Senza spostarsi dal suo naturale baricentro (siamo difatti a un ritorno al suo cinema “greco”), Lanthimos continua un percorso di sperimentazione teso tra familiarità e diversione. Fa l’hula hoop? Potrebbe essere una metafora calzante?

“Rosalie” e il coming of age senza morbosità

Più che dalle parti de La donna scimmia di Marco Ferreri, abusata in ogni modo possibile, siamo vicini a Lezioni di piano di Jane Campion, peraltro con un finale “acquatico” talmente sovrapponibile da far sospettare la citazione voluta. Di Giusto, anche co-sceneggiatrice, porta avanti il suo progetto poetico col giusto bilanciamento fra affermazioni decise e suggestioni intriganti, accarezzando Rosalie con luci morbide e seducenti e disvelandone pian piano il corpo senza morbosità ma con sottile suspense.

“Donnie Darko” dentro il mondo che sta (sempre) per finire

Al suo ritorno nelle sale italiane, a vent’anni di distanza da quando il film di Kelly uscì, il fascino che ancora esercita è da ricercarsi nell’aver creato una rilettura immaginifica e autentica della ricerca del significato della vita, usando un adolescente come l’incarnazione perfetta dell’ansia esistenziale di fronte alle domande con cui gli adulti hanno imparato a convivere. E, da un paio di decenni fa a questa parte, con tutti i cambiamenti che hanno alterato la realtà in cui viviamo, c’è una cosa che non è cambiata: la costante, viscerale, sensazione che il mondo stia per finire.