“La zona d’interesse” speciale I – Al di là della banalità del male

La zona d’interesse, vincitore a Cannes 2023 del Grand Prix della Giuria e presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, è un film in cui la nozione dello spazio è una questione formale e tematica essenziale: la struttura filmica è costituita da un’attenta costruzione e gestione dei luoghi, ripresi con l’utilizzo quasi esclusivo della luce naturale. Dagli spazi interni della casa degli Höß al giardino, lo spazio è un disegno geometrico netto e angusto dove è impossibile qualsiasi concezione di libertà.

“Finalmente l’alba” e le illusioni perdute

Finalmente l’alba, soprattutto all’inizio, sembra dialogare proprio con Bellissima: anche qui abbiamo una madre che vorrebbe vedere sua figlia entrare nel mondo dello spettacolo, ma, a differenza della pellicola di Visconti, questo è solo lo spunto iniziale per parlare di altro. Tuttavia questa prima parte sembra essere la più ispirata, quella dove Costanzo riesce a dipingere al meglio l’Italia del dopoguerra, portando avanti l’affresco storico iniziato già con L’amica geniale. 

“La natura dell’amore” e l’oggetto del desiderio

Non ci saranno risposte univoche o soluzioni giuste, ma è come se non ce ne fosse bisogno: l’obiettivo di Monia Chokri è “appesantire” l’amore con i contesti in modo tale da renderlo affascinante da seguire. A questo contribuiscono le scelte registiche, i dialoghi divertenti e accurati, e una garbata stilettata a chi ha notato in sé una nota di snobismo: gli alti standard morali non valgono nulla senza l’empatia per le persone di altri mondi.

Il caso “Tutti tranne te” e la nuova commedia romantica

Partendo dal presupposto che la commedia romantica è un genere che non permette particolare originalità, poiché la narrazione deve passare da una serie di stazioni fondamentali (l’incomprensione, il confronto, la riappacificazione), gli elementi su cui lavorare creativamente sono i personaggi e il setting. Costruendo personaggi ben caratterizzati le dinamiche si animano e si diversificano, e qui è la caratterizzazione di Sidney Sweeney a trascinare con sé il pubblico.

“Past Lives” speciale III – L’immagine dell’altro

La semi-autobiografia di Celine Song è un film in cui traspare non il doppio, ma l’individuo. Si tratta di un lungometraggio in cui la realtà viene filtrata attraverso l’esperire dei singoli personaggi e non da un soggetto collettivo come può essere la coppia innamorata, e che quindi travalica le aspettative legate al “film uscito a San Valentino”. Una piacevole e malinconica sorpresa accompagnata dalle note dei Grizzly Bear.

“Past Lives” speciale II – Tra amori e identità

Past Lives è l’esordio cinematografico di Celine Song, certamente un film sulle diverse declinazioni del concetto di amore; di come sia soggetto alle variabili temporali e spaziali, come diversi tipi di amore appartengano a diverse fasi della vita e come queste relazioni possano coesistere e stratificarsi fino a creare un mosaico  di amori. Ma Past Lives è soprattutto un film sull’identità: su come venga plasmata dai nostri legami e dalle nostre scelte.

“Past Lives” speciale I – L’equilibrio tra detto e non detto

Questo è un indie movie romantico, agrodolce ma venato di ottimi momenti comici, e ciò forse permetterà anche una approvazione generale al di là dell’età: dai più anziani che amano Harry, ti presento Sally ai giovanissimi che forse saranno più attratti dalla componente di cultura coreana, fino ai critici coetanei della regista, più attenti sia al buon cinema che alle micro tendenze che di giorno in giorno possiamo osservare in questa industria.

“Il colore viola” tra impegno e spettacolo

I pur notevoli numeri musicali, che diretti con maestria  sottolineano e alleggeriscono i momenti più delicati del racconto, ripropongono di fatto un tradizionale immaginario legato all’afroamericano che la nuova produzione black sta cercando tenacemente di smantellare. Jazz e blues associati a neri dissoluti e lussuriosi, work songs su massacranti lavori di massaie, operai e chain gang, tutti interpretati con sorrisi, mossette e gridolini è quanto di più stereotipato Hollywood continui testardamente a proporre.

“Green Border” e l’orrore del confine

In un’odissea di fughe drammatiche e difficili ricongiungimenti, la regista polacca utilizza il suo cinema come voce indipendente, depurata dall’intensità patriottica e da qualsiasi inclinazione verso facili retoriche. Tutto ciò contribuisce a rendere Green Border un lucido manifesto corale, memore della lezione universalistica di Andrzej Wajda, uno dei maestri della cineasta: ogni male è da condannare e, nel momento in cui si gira un’opera su un presente buio, essa porta già con sé i germi del futuro.

“Suspiria” di Argento e l’estetica di Tovoli

Noto principalmente per le sue collaborazioni con Michelangelo Antonioni, Tovoli si trovò proprio con Suspiria ad avere a che fare per la prima volta con il genere horror. Ciò rappresentò una sfida non indifferente per un artista che mai aveva preso parte ad una produzione di questo tipo, ma d’altro canto si rivelò anche motivo di fascino per la gamma di possibilità che un genere fantastico poteva offrire dal punto di vista visivo. 

“Te l’avevo detto” e l’apocalisse collettiva

Dopo il buon successo di critica ottenuto con il suo esordio, Magari (2020), Ginevra Elkann ritorna ad occuparsi di una serie di coppie disfunzionali con Te l’avevo detto, sceneggiato sempre insieme a Chiara Barzini con l’aggiunta di Ilaria Bernardini. Diversamente dal primo film, non sono tanto i legami sentimentali quanto le dipendenze e gli incubi del passato a caratterizzare i rapporti tra i personaggi.

In memoria di Sandra Milo

Sandra Milo ha avuto il coraggio di essere una donna diversa (o l’altra donna) in tempi in cui l’unico ruolo femminile ammissibile era quello di moglie e madre, di passare per sciocca, per poter dire ciò che voleva, di vendere (consapevolmente) l’immagine provocante del suo corpo, per incitare le donne ad una maggiore libertà nell’espressione libera e soggettiva della propria sessualità. “Ho vissuto come ho voluto, sempre. Sono fortunata perché non ho rimorsi né rimpianti”, ha detto poco tempo fa. 

“Una bugia per due” commedia senza retorica

A dispetto dell’insensatezza del titolo italiano (l’originale francese era il ben più incisivo Je ne suis pas un héros), Una bugia per due dimostra notevole chiarezza di visione nel mettere alla berlina il politically correct quando spurgato di ogni significato, ormai utile solo a mantenere delle apparenze e a raggiungere più agevolmente i propri fini non sempre encomiabili. Riflessione quanto mai attuale, portata in scena senza intenti manifestamente didattici o ostentatamente cinici, e proprio per questo alla fin fine più persuasiva.

“How to Have Sex” e la diseguaglianza del consenso

How to Have Sex, seppur contrassegnato da un incipit all’insegna del divertimento, il mezzo che concede alle tre protagoniste di eludere provvisoriamente una generale ansia per il futuro, è un film che richiede agli spettatori di prestare attenzione ai silenzi. Rispetto alla cornice, a emergere quali fondamentali aspetti nell’economia della narrazione, siano studiati e approfonditi o tracciati rapidamente, sono i piccoli gesti, le allusioni, le intuizioni e i non detti.

“La signora della porta accanto” e la critica

Parola a Serge Daney: “Se La signora della porta accanto è un film così riuscito e, alla fine, così commovente, è perché Truffaut, nemico dell’esibizionismo delle passioni e delle idee, uomo della giusta misura e del compromesso, cerca questa volta di filmare il compromesso stesso, di farne la materia, la forma stessa del film. La scommessa di Truffaut è uscire da La camera verde, mescolare la sceneggiatura Hyde (la passione morbosa e privata) e la sceneggiatura Jekyll (gli altri, la vita pubblica) senza che l’una prevalga sull’altra, senza che lo spettatore debba scegliere fra le due”.

A proposito di Vigo, secondo Truffaut

Riprendiamo in esame alcune delle riflessioni di François Truffaut su questo cineasta divenuto oggetto di culto per cinefili e registi. “Ho avuto la fortuna di scoprire tutti i film di Jean Vigo in un’unica volta, un sabato pomeriggio del 1946, al Sèvres-Pathé grazie al cine-club La chambre noir animato da André Bazin. Entrando in sala ignoravo persino il nome di Jean Vigo, ma fui preso immediatamente da un’ammirazione sterminata per quest’opera che tutta insieme non raggiunge nemmeno i duecento minuti di proiezione”.

Ripartire (ancora) dal desiderio – Speciale “Povere creature!”

Il motore primo di Frankenstein è il fallimento genitoriale: dopo nove mesi passati a creare il mostro e a dargli vita, il dottore rifiuta il suo ruolo di genitore e la possibilità di provare empatia verso il neo-nato, scappando dalla sua stessa creazione. Povere creature! è profondamente debitore al romanzo di Shelley. La vicenda parte dalla premessa opposta e si chiede: cosa sarebbe accaduto se il genitore del mostro si fosse assunto la responsabilità di ciò che ha creato? E cosa accadrebbe se la creatura fosse una donna?

Dove l’eccesso è la norma – Speciale “Povere creature!”

Un giorno Dio creò l’uomo e fu il primo sguardo. Al suo meglio il cinema ci restituisce uno sguardo sul mondo come se fosse la prima volta che lo vediamo. In Povere Creature! l’identificazione con lo sguardo della “idiota” Bella Baxter permette a ogni nuova scena un’esperienza di questo tipo in una screwball post-umanista che si fa grande destrutturazione delle colonne portanti su cui si regge la convivenza umana: famiglia, denaro, matrimonio, identità, uomo, donna, Dio, umanità. Nulla può più rimanere stabile, tutto eccede e così si aprono nuove vie all’immaginazione.

Tutto è femmina – Speciale “Povere creature!”

Come la Barbie di Greta Gerwig perde di punto in bianco serenità e innocenza risvegliandosi dal sogno zuccheroso di Barbieland per spostarsi con urgenza in quello reale, così la Bella di Lanthimos risponde agli stimoli della vita con stupore e logica, meraviglia e disperazione, dedizione e iniziativa. Al progressivo crescere della consapevolezza il suo sguardo si fa informato, i modi armoniosi e un obiettivo prende forma, eterno approdo di ogni neo-adulto che si domanda: “per cosa sono qui?”.

“Stranger Than Paradise” 40 anni dopo

L’occhio “malincomico” di Jarmusch de-territorializza luoghi e ambienti con un bianco e nero dalla luce abbacinante (splendida la fotografia iperrealista di Tom DiCillo) che rende “i posti un po’ tutti uguali” con un clima di glaciale umorismo e di poetico grigiore. Certamente affiorano influenze di quel surrealismo che il cinefilo ragazzo di Akron (Ohio) studiò a Parigi, affascinato dal pensiero di André Breton che affermava: “la letteratura è una delle strade più tristi che portano dappertutto.”

“Yannick” e il rito sociale del palco

Più che a graffiare il contemporaneo alla Luis Buñuel, Dupieux sembra interessato a burlarsi in maniera leggiadra dei suoi riti di funzionamento, mettendo in luce, in una sorta di dimostrazione per assurdo, il nostro assoluto spaesamento quando questi vengono aboliti. I personaggi principali sono poi sempre perpetuamente mossi da obiettivi strampalati o irrilevanti, lasciandoci però alla fine il dubbio che i nostri possano in fondo esserlo altrettanto.