“Io ti salverò” e le pulsioni sotterranee
A Hitchcock, da buon cattolico, di tutto lo spettro della psicopatologia sembra interessare soprattutto il complesso di colpa: i suoi film più centrati su aspetti psicoanalitici (oltre a questo occorre citare almeno La donna che visse due volte, Psyco e Marnie) sono sviluppati su questa dinamica nonché spesso su un salvatore o una salvatrice animati non tanto da disinteressata carità quanto piuttosto da pulsioni sessuali sotterranee.
“Io ti salverò” e la sua genesi. Testimonianze e ricostruzione
Era, come dirà Hitchcock a Truffaut, “un romanzo melodrammatico e realmente folle che raccontava la storia di un pazzo che s’impadroniva di una clinica di pazzi! Nel romanzo, perfino gli infermieri erano dei pazzi e facevano ogni sorta di cose! La mia intenzione era più ragionevole, io volevo soltanto girare il primo film di psicoanalisi”. Il regista decide di conseguenza di mantenere in piedi soltanto la cornice ambientale, qualche situazione e qualche personaggio e poi cambiarne completamente la struttura narrativa.
“Maestro” tra biopic e storia di un matrimonio
Più intento a essere non banale che davvero originale, Maestro non è quindi la storia di un grande musicista – delle cui creazioni è infuso tutto il film, senza ci venga detto nulla del loro processo creativo – ma la storia di un matrimonio: sviluppare un biopic attorno alla sfera privata è una tendenza dominante del cinema contemporaneo e, non a caso, perfettamente mimetica della celebrity culture odierna, del modo in cui i famosi si raccontano ai comuni mortali su Instagram.
Ryan O’Neal il duro non balla più
La carriera di Ryan O’Neal ha attraversato molte forme e diversi generi del panorama mediale contemporaneo. Dalla soap opera che lo ha fatto conoscere al grande pubblico televisivo degli anni ’60 all’inaspettato successo nel ruolo del ricco rampollo innamorato Oliver Barrett IV nel blockbuster strappalacrime per eccellenza degli anni ’70, dall’approdo ai film d’autore fino al debutto teatrale e al ritorno alla televisione negli anni 2000, O’Neal ha continuato ad essere, nell’arco di sessant’anni, uno dei volti più noti dell’industria cinematografica e televisiva americana.
“Il male non esiste” nel mondo senza redenzione
Con Il male non esiste Hamaguchi dimostra un’enorme maturità espressiva che si declina in una gestione eccellente del mezzo cinematografico e in una grandissima capacità di raccontare offrendo allo spettatore il minimo indispensabile. I dettagli, il taglio delle inquadrature, ogni elemento va al suo posto facendo apparire semplice la complessità soverchiante di questo mondo e componendo un’opera tanto suggestiva quanto rassegnata in cui non sembra esserci possibilità di redenzione, né di salvezza.
“Funny Games” e l’ossessione del dolore
Funny Games, nonostante la televisione a tubo catodico e il telefono cellulare con antenna esterna, risulta estremamente contemporaneo nell’evidenziare il distacco emotivo che lo spettatore, saturo di crudeltà, prova nei confronti della sofferenza altrui che sembra, poiché trasmessa mediaticamente. È forse il caso di riprendere la discussione sul confine tra realtà e finzione che Paul e Peter intrattengono sul finale dell’opera di Haneke?
“Viaggio a Tokyo” 70 anni dopo
È un Paese, quello di Ozu, negli anni dell’occupazione americana. Un Paese che cambia e nel cambiare abbandona anche i suoi valori più autentici come il senso dell’accudimento, il ritmo lento della vita, il rispetto dei rituali. Il regista ne ha nostalgia, ne soffre; eppure, il suo cinema “gentile” – come lo definisce Kaurismäki – ha una narrazione che non contiene conflitti, non ci sono buoni e cattivi da una parte e dall’altra. Si fa fatica a non giudicare i personaggi di Ozu.
“The Eternal Memory” ritratto di un amore reale
La vita di Augusto Góngora, giornalista politicamente impegnato nel Cile di Pinochet, e Paulina Urrutia, attrice che, nei primi anni Duemila, ricoprì l’incarico di Ministra del Consiglio Nazionale per la Cultura e le Arti, è stravolta quando a lui viene diagnosticato l’Alzheimer. Giorno dopo giorno, i due affrontano questa sfida a testa bassa, affidandosi al tenero affetto e al senso dell’umorismo.
“Un colpo di fortuna” che non possiamo controllare
Allen questa volta al posto di Dostoevskij legge – e rilegge – Simenon, le cui atmosfere ritroviamo anche nel finale del film. Nel suo collaudato schema, che propone temi e dilemmi etici attraverso un racconto leggero, Woody aggiunge una riflessione: la fortuna non solo non la possiamo controllare ma la cerchiamo anche nel posto sbagliato. A volte il biglietto vincente della lotteria non si trova in un negozio ma dentro un bosco.
“La grande abbuffata” 50 anni fa
Quali sono le cause perturbanti del cinema di Marco Ferreri (un ex veterinario approdato al cinema con la sua coorte di animali, corpi e fisiologicità abbondanti)? Di sicuro ciò che crea disagio in questo film è la metafora nascosta dietro al cibo, poiché Ferreri usò il cibo in tutti i suoi film e massimamente ne La grande abbuffata, come mezzo per interpretare, criticare e demolire le sovrastrutture sociali. Oppure il fastidio nasce dal fatto che questa rappresentazione fu fatta in chiave più che grottesca, quasi scatologica?
Hollywood Chaplin
Inviato speciale della United Press, Henry Gris fu l’unico giornalista presente sul set durante gli ultimi giorni di riprese di Luci della ribalta, tra il gennaio e il febbraio del 1952. Oltre a conservare alcuni ritagli stampa tratti dal reportage di Gris, tra le carte del fondo Chaplin della Cineteca di Bologna figura l’articolo integrale, rimasto inedito per oltre settant’anni. La prima parte è stata pubblicata in italiano nel libretto di Limelight – Luci della ribalta, edito dalla Cineteca di Bologna a novembre. Qui pubblichiamo una parte ulteriore.
Un ricordo cinematografico di Shane MacGowan
Come approcciarsi a Shane MacGowan? Come tentare di raccontare la parabola celebrativa e distruttiva di chi si è fatto al contempo icona, stereotipo, tradizione e ribellione? Figlio del repubblicanesimo e della diaspora irlandese, Shane è una scheggia impazzita che trova a Londra, nel bel mezzo della rivoluzione musical-popolare del 1976, il motore poetico di una rabbia antica. Impossibile da moderare, anche sfruttando gli stratagemmi del mezzo filmico. Qualcuno l’ha già detto: “Shane’s gonna Shane.” E Julien Temple lo sa, lo sa molto bene.
“Il cielo brucia” nel terremoto della rappresentazione
In confronto al modello rohmeriano, lo sguardo spettatoriale rimane sempre leggermente laterale rispetto a quello del protagonista. Assiste al suo sonnambulismo ma con divertita ironia. Secondo Montaigne il compito di un artista non è descrivere l’essenza delle cose ma l’oscillazione tra le cose. È un passaggio in esergo a un saggio di Werner Hamacher sul terremoto della rappresentazione in von Kleist, saggio a un certo punto citato da Nadja all’editore di Leon. Anche lo spettatore prova questa oscillazione.
“Io ti salverò” e la critica
Riscoprire Io ti salverò. L’antologia critica offre tanti spunti. Come scrive Dave Kher: “Lo sgargiante freudismo di questo film di Hitchcock del 1945, sostenuto da una sequenza onirica ideata da Salvador Dalí e una roboante colonna sonora di Miklós Rósza, può renderlo difficile da apprezzare, ma al di sotto della superficie c’è un intrigante studio alla Hitchcock sul ribaltamento dei ruoli, con medici e pazienti, uomini e donne, madri e figli che capovolgono le relazioni assegnate, con risultati avvincenti e sovversivi”.
“Diabolik – Chi sei?” secondo lo sguardo di Eva Kant
Se l’intera trilogia costituisce un’esperienza visiva singolare e seducente per l’uso sapiente del colore e per il rigore filologico nel trasporre sullo schermo l’eleganza stilizzata delle tavole originarie, nell’ultimo capitolo i Manetti Bros abbandonano parzialmente la scelta stilistica di aderire alla fissità grafica dei fumetti che in qualche modo congelava l’azione nei due film precedenti e sviluppano la diegesi del film su più linee narrative, mischiando registri stilistici ed epoche differenti.
“Fingernails” come diagnosi d’amore nell’eclisse digitale delle emozioni
L’amore di coppia è fantascienza? Il film di Christos Nikou non risponde esattamente a questa domanda ma immagina un’anomala rom-com in un mondo distopico con relazioni sentimentali irrisolte. In tempi e spazi indefiniti, sospesi tra iconografie del passato ridisegnate e asettici auspici futur(ist)i, le uniche certezze affettive provengono da una macchina analitica. Il freddo ma rassicurante calcolo ha sostituito le calorose ma spinose emozioni.
Chaplin incontra Fellini. Dialogo sopra due massimi sistemi
Se come scrive Jean Starobinski, l’altezza vertiginosa è al contempo la dimensione del clown acrobata e l’allegoria dell’atto poetico e creativo, allora, si può immaginare Fellini come un funambolo che, per attraversare l’abisso che lo separa dal suo film, mette in scena i propri incubi, fobie e desideri, compiendo metaforicamente un numero acrobatico che non ha bisogno di nessuna giustificazione al di fuori sé. Ciò che libera Fellini/Guido, ciò che lo redime è un atto d’amore nei confronti del mondo dell’arte, un atto di fiducia totale nelle infinite possibilità di combinazione della sua fantasia. Similmente Chaplin/Charlot si libera delle proprie angosce rappresentandole in forma di pura poesia visiva.
Il potere grottesco tra “Napoleon” e “Blade Runner”
E se vi dicessimo che Napoleone appariva in Blade Runner? Nell’antro di J.F. Sebastian, nella scena in cui questi rincasa insieme a Pris, vengono ad accoglierli alla porta due creazioni dell’inventore: due pupazzi in alta uniforme vestiti come il Kaiser Guglielmo e, appunto, Napoleone. Un Napoleone un po’ buffo un po’ inquietante, che trotterella emettendo strani versi, parodia del Potere e fantoccio tragico di un mondo in cui tutto è replicante, spossessato del proprio destino e della propria soggettività.
La catabasi suicida della “Chimera”
È difficile capire dove, in Arthur, finisca la combattuta fascinazione per i corredi funerari che dissacra e dove inizi il sospetto che, se profana abbastanza tombe, prima o poi troverà quella che cerca. È l’ambivalenza dell’Appeso, la carta dei tarocchi richiamata dalla locandina del film: “Una carta di “gioiosa resa” – ha scritto Francesca Matteoni – oppure “di blocco e sacrificio doloroso”. E l’Appeso è “esplicitamente un condannato, uno sciamano, un esule, un criminale, qualcuno che ha il coraggio paradossale di arrendersi”.
“La chimera” e l’insistenza delle rovine
I tombaroli di Alice Rohrwacher cercano l’Etruria e non l’Italia, vogliono gli oggetti, i soldi, il riscatto, eppure pedinandoli il film scava gli strati, non alla ricerca di linee temporali, ma dei punti di insorgenza. Non l’origine, ma la nascita delle condizioni. Non la cronologia, ma il “tempo profondo”. In questo senso l’archeologia sembra una futurologia, una ricerca dei futuri perduti, di quelli non scelti. La cultura etrusca come società a genealogia femminile, matriarcale.
“Mary e lo spirito di mezzanotte” minuzioso e internazionale
Enzo D’Alò guarda all’Irlanda trovando in Roddy Doyle la penna con cui confrontarsi. Sa bene di avere tra le mani del materiale ottimo per la sua sensibilità. Dunque, con la giusta esperienza maturata in carriera, rilancia la sfida concentrandosi, come forse mai fatto in maniera così ambiziosa sino a oggi, sulla forma del suo film. L’animazione ha un sapore internazionale per la fluidità del tratto e la complessità della regia.