“The New World” e la critica all’etnocentrismo

Malick si ferma agli albori di quello che sappiamo sarà un genocidio, e dopo l’operazione mastodontica di The Tree of Life il suo linguaggio si atomizza in racconti minimi e intimisti, quasi accettando l’impossibilità di concepire un discorso storiografico in uno scenario come quello contemporaneo. Ma The New World non è solo un racconto di perdita e sconfitta, e tramite il personaggio di Pocahontas, che come altri personaggi malickiani ci mostra  una tenace e incrollabile fedeltà alle proprie istanze interiori, il regista texano prosegue il suo percorso da inesausto idealista, continuando a mostrarci il potenziale umano.

“Il fantasma dell’opera” e la Hammer. Il pianto del mostro e l’orrore del bello

Nella lunga storia di successo della Hammer Film Productions, Il fantasma dell’opera rappresenta forse il primo vero passo falso, almeno in termini commerciali. Distribuito in America dalla Universal, forte di un budget più cospicuo rispetto alla media dello studio inglese ed abbastanza “sulle mappe” da far pensare per qualche tempo a una possibile partecipazione come protagonista di Cary Grant, Il fantasma fece fiasco al botteghino, e ancora oggi è ricordato soprattutto “per singole sequenze da cui emerge il talento registico di Fisher” (Mereghetti). Al di là del disaccordo per la freddezza con cui è stato storicamente trattato, questo film riuscito a metà, piatto nella scrittura ma spesso folgorante nella messa in scena, appare oggi come un prezioso summa del percorso della Hammer fino a quel momento, fra le chiavi migliori per dischiudere i segreti del suo affascinante mondo.

I menestrelli di Walt Disney

Disney scelse come suo marchio, da amante del Medioevo e della musica sinfonica, il castello di Neuschwanstein, che fece costruire anche all’interno del suo parco di divertimenti a Orlando. Tutti i castelli dei suoi film sono una riproposizione di Neuschwanstein, dalla versione più cupa e spaventosa a quella più brillante e aperta. Principesse, principi, streghe cattive, maghi e fate buone sono i personaggi probabilmente rimasti più impressi dell’immaginario neo-medievale Disney. Tuttavia c’è un soggetto che, nonostante sia difficile da inquadrare, ritorna spesso e attraverso le sue rare e brevi apparizioni all’interno di questi sogni si rende indimenticabile: il menestrello.

Tre passi nel delirio con Camilla Cederna

In occasione delle celebrazioni felliniane, proseguiamo con la pubblicazione di alcuni estratti di articoli che scrittori, poeti e intellettuali hanno dedicato al Maestro e al suo cinema, contenuti nel fondo Calendoli. È la volta di Camilla Cederna (Milano 1911-1997), una delle prime donne in Italia a conseguire la laurea. Di estrazione alto-borghese, la sua carriera di giornalista e scrittrice di costume e di politica (dal 1945 al 55 è redattrice del settimanale L’Europeo e successivamente,...

“Favolacce”. La crisi e il masochismo

Gli alberi, un temporale estivo, la periferia romana, la disoccupazione e il decadente contemporaneo. Favolacce inizia pienamente assestato sui binari del cinema del reale italiano. E come tale sembra sposare la dedizione verso un racconto degli ultimi, verso uno sguardo sul marginale (dedizione già sviscerata nel precedente La terra dell’abbastanza). Ma, lo si può intuire subito, il secondo film dei fratelli D’Innocenzo (Orso d’argento per la migliore sceneggiatura alla Berlinale 2020) percorre tutta un’altra strada. L’ultima collaborazione dei registi al soggetto di Dogman, per esempio, ne era un fatto sintomatico. I due realizzano un cinema del ritorno agli sfarzi del grottesco, narrativo e poco votato al manierismo, impegnato a raccontare l’oggi.

“Buio” e le piccole donne che resistono

Opera prima di Emanuela Rossi, Buio è un film suddiviso in capitoli scanditi dalle illustrazioni di Nicoletta Ceccoli. Infatti, come afferma la stessa regista, è stata proprio un’opera di questa artista ad averla ispirata per la trama del suo film. Girato per lo più all’interno della casa in cui abitano le piccole donne, sono loro le vere protagoniste del film. Tutt’e tre vestite convestaglie “alla Wendy”, come le definisce Rossi stessa, le vediamo impegnarsi i giorni nello studio e nel fare ginnastica. In particolare, spicca tra tutte Denise Tantucci, precedentemente vista in varie fiction. Perfettamente centrata nel ruolo di sorella maggiore, dà il meglio di sé nei primi piani grazie alla forza della sua espressione facciale. Non è da meno l’attore protagonista, Valerio Binasco che, di certo non alle prime armi, sa ben incarnare il padre affettuoso e sadico allo stesso tempo.

Antonio Pietrangeli e il femminile

È piuttosto noto il fatto che Antonio Pietrangeli non sia stato un regista particolarmente apprezzato dalla critica nell’arco della sua carriera, e che sia stato rivalutato solo dopo la sua morte. Naturalmente è troppo facile ergersi a “critici dei critici” e disapprovarli a posteriori, eppure ad oggi risulta difficile comprendere il motivo di tale scarsa valorizzazione del lavoro del regista romano, la cui filmografia (in parte recuperabile su Amazon Prime Video e RaiPlay) stupisce per l’incredibile modernità e per l’ampia gamma di sfumature nella raffigurazione dei personaggi femminili, che pur essendo ognuno a proprio modo rappresentativi dei cambiamenti di un’epoca e dei suoi costumi, mantengono la loro unicità e forte caratterizzazione. 

“Buttiamo giù l’uomo” e il rovesciamento delle attese

Diretto da due registe, Bridget Savage Cole e Danielle Krudy, Buttiamo giù l’uomo (attualmente su Amazon Prime Video) suggerisce sin dal titolo un’intenzione femminista così apologetica da esserne evidentemente anche l’immediata presa in giro. E da subito capiamo che non tutto sarà come ci si aspetta, da una scena d’apertura memorabile in stile musical, dove disposti in armoniosa simmetria gli attori cantano e fanno anche l’occhiolino alla cinepresa; solo che non vengono accarezzati dalle studiate luci glamour dell’epoca d’oro di Hollywood, ma di tratta di ispidi pescatori del Maine, inguainati in pesanti paramenti impermeabili, impegnati a trafiggere pesci in un’atmosfera gelida.

“Salò” e il riso dell’abiezione

In occasione dell’uscita in Blu-ray di Salò o le 120 giornate di Sodoma, edito da CG Entertainment e contenente la versione restaurata dalla Cineteca di Bologna, ci soffermiamo sull’“astenia” rivoluzionaria e sulla bulimia linguistica del potere teorizzate dal regista, affrontando in particolare il tema del riso. Nel regno dell’abiezione immaginato da Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’espressione linguistica diventa comportamento svuotato di senso, il motto si trasforma in sciatta propaganda e il linguaggio del potere si manifesta in una geometrica coazione a ripetere. Ecco allora il perché della struttura – l’Antinferno e i tre gironi – del “teorema” delle perversioni fisiche, di quell’abisso epistemologico che segna un solco tra la Storia svanita e le storie soppresse.

Il filo rosso del dolore. “Rosa” e “Tornare”

“Il dolore è il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime”, così scriveva Marie von Ebner-Eschenbach. E proprio sul dolore, su un lutto, su un trauma non del tutto elaborato sono centrati due film di recente visione, tra i quali vediamo scorrere un impalpabile fil rouge intessuto delle diverse declinazioni cinematografiche che si possono dare al tema del dolore e dei percorsi alterni che le anime possono intraprendere per superarli. Le due opere prese in esame sono Rosa, esordio al lungo della documentarista Katja Colja, e Tornare di Cristina Comencini: entrambi film girati da donne, entrambi con una donna per protagonista, eppure capaci di essere agli antipodi.

“All Day and a Night”. Ricordare con rabbia

Il maggior pregio di All Day and a Night (presente su Netflix), opera seconda del regista, produttore e sceneggiatore Joe Robert Cole (noto come uno degli autori di The People v. O. J. Simpson e Black Panther) è l’andare oltre i cliché del ghetto-movie pur non tradendo le dinamiche stilistiche del genere. Come già Barry Jenkins in Moonlight e Se la strada potesse parlare, Cole cerca di smontare gli stereotipi legati alla periferia americana mostrando un’alternativa valida a quella iconografia. Mostrando in flashback il passato del ragazzo protagonista e di come sia finito in carcere per omicidio, il film esce dai binari consueti del genere per farsi indagine sul contesto sociale e culturale al cui interno si forma il giovane gangster.

Giovanni Arpino immagina Fellini

In occasione delle celebrazioni felliniane, proseguiamo con la pubblicazione di alcuni estratti di articoli che scrittori, poeti e intellettuali hanno dedicato al Maestro e al suo cinema, contenuti nel fondo Calendoli. E su Fellini maestro del colore si sofferma Giovanni Arpino, dedicandogli una delle sue famose lettere “scontrose” dalle pagine di Il Tempo, il 13 gennaio 1965, pochi giorni prima del quarantacinquesimo compleanno del regista. Radicato nella cultura piemontese, Arpino è stato un grande giornalista, scrittore e poeta; di fama mentre ancora in vita (è scomparso nel 1987), oggi purtroppo tra i molti dimenticati, forse a causa della suo stile unico, non riconducibile alle correnti letterarie nazionali contemporanee. 

 

“Black Christmas” e il conflitto tra stereotipi

Nonostante i nobili propositi, Black Christmas di Takal non combatte le discriminazioni di genere, ma si trasforma in un conflitto tra stereotipi volutamente tranchant. Problematiche sociali mai scomparse come lo stalking, la violenza, la prevaricazione del branco, si esauriscono in un parossismo grottesco che allenta la presa critica sulle battaglie delle protagoniste. Gli espedienti si fanno sempre più bizzarri e prevedibili, e un film che mirava a esulare dal classico slasher rischia di declinare nella parodia dello stesso. Se l’atto di convertire la preda in predatore resta intrigante negli intenti, Sophia Takal decostruisce il film di Clark per confezionare un racconto contraddittorio sull’empowerment, vanificando ogni tentativo di sovvertire gli schemi.

Polanski e la trilogia dell’appartamento

Da luogo intimo e confortevole, scudo nei confronti dei pericoli del mondo esterno, a claustrofobico scrigno costrittivo e amplificatore di reconditi disagi. Le molteplici forme assumibili dall’ambiente domestico riflettono gli stati emotivi degli individui che in esso risiedono. Aspetto il cui potenziale suggestivo in campo cinematografico era ben noto già a pionieri dell’orrore come Robert Wiene o Paul Leni. Come un labirinto di specchi deformanti, le mura di casa possono rendersi agenti distorsivi della percezione umana. Una delle più lucide traslazioni di questo fenomeno in racconto audiovisivo giunge dalla filmografia di Roman Polanski ed in particolare da quel trittico irrinunciabile che, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, ha saputo scandagliare il terrore annidato nelle stanze di appartamenti immersi in contesti urbani.

“Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” e ci ricorda di prenderla con calma

Nel maggio del 2010 la giuria del festival di Cannes, presieduta da Tim Burton, conferì la Palma d’oro per il miglior film a Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti del regista thailandese Apichatpong Weerasethakul. Dieci anni dopo, orfani del festival a causa della pandemia, ci concediamo il lusso di sottoporre la pellicola ad una prima importante prova del tempo, e al confronto altrettanto significativo con le fortune successive delle altre opere che condivisero il concorso di quell’anno. Quali ricordiamo? Di certo lo struggente Poetry di Lee Chang-dong, il senile Another Year di Mike Leigh, ma anche il disperato Biutiful di Alejandro González Iñárritu. E Boonmee?

Nantas Salvalaggio e l’aldilà di Fellini

In occasione delle celebrazioni felliniane, proseguiamo con la pubblicazione di alcuni estratti di articoli che scrittori, poeti e intellettuali hanno dedicato al Maestro e al suo cinema, contenuti nel fondo Calendoli. In quest’atmosfera da cinema catastrofico in cui siamo immersi, il passo verso altri mondi è breve. L’articolo, apparso su Epoca, il 29 novembre 1964, del giornalista e scrittore Nantas Salvalaggio ci conduce sul set di Giulietta degli spiriti (1965) in cui prendono forma i fantasmi di Fellini; attraverso la propria moglie – che in questo film fa rivivere l’amatissimo personaggio di Gelsomina che da La strada (1954) viene catapultata all’interno di un universo fatuo e borghesissimo – il Maestro compie un esorcismo contro la paura dell’abbandono e per estensione della morte. 

“We Are Russia” a Visions du Réel 2020

La Compétition Internationale Moyens et Courts Métrages di Visions du Réel 2020 propone il bel documentario di Alexandra Dalsbaek, We Are Russia, girato tra il 2017 e il 2018, riguardante le vicende legate alle elezioni russe del 18 marzo 2018. Il film segue un giovanissimo gruppo di attivisti (tutti tra i 16 e i 24 anni), cresciuti all’ombra di Putin e sostenitori del suo oppositore principale nella campagna elettorale: Aleksej Naval’nyj, che sarà poi escluso dalla candidatura, ufficialmente a causa di varie condanne, ma più verosimilmente per la forte opposizione al regime autoritario di Putin, il quale lo fece arrestare più volte nel corso del 2017 per aver sostenuto manifestazioni non autorizzate dal governo.

“Punta Sacra” a Visions du Réel 2020

In questa particolare edizione di Visions du Réel trova spazio l’opera seconda di Francesca Mazzoleni, cineasta catanese classe 1989 proveniente dal Centro Sperimentale di Cinematografia. Punta Sacra è quel luogo situato nella striscia di terra alla foce del Tevere, dove il fiume si riversa in mare e dove, da circa 60 anni, si trovano le abitazioni dell’idroscalo di Ostia. Nel 2010, in seguito a un’ordinanza comunale, sono state abbattute circa la metà delle abitazioni ed ora ne rimane una comunità di 500 famiglie che lottano quotidianamente per rimanere ancorate ai propri luoghi d’origine. Il film ha avuto una gestazione molto lunga, il primo contatto con la comunità è avvenuto circa otto anni or sono, quando l’autrice frequentava il CSC ed era alla ricerca di location per il suo primo cortometraggio. Lì è scattata la scintilla.

“ll mio corpo” a Visions du Réel 2020

Presentato in concorso nella sezione “Longs Métrages” al Festival Visions du Réel che quest’anno si svolge interamente online, Il mio corpo di Michele Pennetta rivisita in chiave post-industriale e globalizzata l’ideale dell’ostrica di matrice verista. Oscar e Stanley, protagonisti del documentario, si muovono in una Sicilia aspra e ostile da cui non riescono a staccarsi. Tuttavia, rispetto all’ideale verista, al “tenace attaccamento [della] povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere”, al loro passato, alle loro tradizioni, alla “religione della famiglia” per citare Giovanni Verga, Oscar e Stanley sono già, in qualche modo, resi nomadi dalle dinamiche economiche e sociali di sfruttamento dell’economia globale.

“Tornare a Vincere”. Uguale a tanti, diverso da quasi tutti

“Occhio ai dettagli!” ripete varie volte Jack Cunningham (Ben Affleck) ai suoi ragazzi. Li invita a non sottovalutare nulla in una partita di basket. Tutti i dettagli contano per portare a casa un risultato: ogni rimbalzo, ogni passaggio, ogni tiro. Sono i dettagli che alla fine fanno la differenza. Bisogna ammettere che questo consiglio, per chi decide di mettere in scena una classica e piuttosto convenzionale storia di redenzione attraverso lo sport, deve essere risuonata quasi come un mantra, se non addirittura come una dichiarazione di intenti. Come mantenere infatti un proprio sguardo riconoscibile e lasciare il proprio segno d’autore anche attraverso il racconto di una vicenda che di originale non ha praticamente nulla? Attraverso i dettagli. Attraverso ogni singola inquadratura. 

Memoria, suono e Liberazione

Memoryscapes Sound Live. Liberazione è uno speciale live cinema composto da materiali filmici d’archivio sulla Liberazione sonorizzati dal vivo (a distanza e online), presentato da Home Movies e Ferrara sotto le stelle festival, in collaborazione con Kinè e Istituto Storico Parri, in occasione del 75esimo anniversario della Liberazione. Alcuni tra i musicisti più innovativi della scena italiana contemporanea, Cabeki, Laura Agnusdei, Xabier Iriondo, Stefano Pilia e Nicola Manzan hanno sperimentato una forma audiovisiva inedita creando una colonna sonora a distanza.